Il trekking nel Mustang 28/10/2019 Tscharang – Lo Manthang

Un regno ormai passato

Sono arrivato finalmente!!! Questa è stata l’ultima tappa da Tscharang a Lo Manthang Fatica? Certo non è stata una passeggiata, ma diciamo che c’è stato di peggio. Oggi ho camminato per 14 Km sul “borotalco” tanto la polvere era fine e impalpabile.
Arrivi all’ennesimo passo e la vedi giù, in fondo, l’antica capitale dell’antico Regno di Lo: Lo Manthang. Un villaggio con meno di 2000 abitanti, sperduto nel mare delle montagne, che vive ormai nel passato, un regno ormai inesistente e con un re ormai, purtroppo, deceduto. Tutto ormai parla del passato: almeno il deposto re era un punto di riferimento per la popolazione. Ora è il regno di qualche negozio che vende improbabili cimeli artistici di un tempo di gloria. Non c’è nulla se non anziani in attesa che anche per loro arrivi il “vento”. Donne in continua preghiera sulle soglie di casa, che trovano ancora qualcosa da raccontarsi. Giri per le viuzze dove incontri deiezioni in ogni dove, attraversando le quali senti il muggire degli animali nelle stalle e il chicchirichì dei galli nei pollai, ma dove senti anche il risuonare dei tamburi che accompagnano le preghiere della sera e del mattino.

La precarietà

Qui tutto è precario. Le case, lungo i vicoli della città vecchia, sono appoggiate le une alle altre, tutte bianche con piccole finestre colorate. È tutto piccolo, angusto, buio e sporco. Ci fosse una casa con i muri perpendicolari al terreno o con una finestra con i lati tra di loro paralleli! Tra le case scorre veloce un rigagnolo sul quale le donne s’inginocchiano per lavare i piatti o fare il bucato. Gopal mi racconta che 20-30 anni fa qui la vita era completamente diversa. Oggi, molti dei già pochi abitanti fanno la stagione come i nostri rifugisti, per scendere a Jomsom o a Pokhara durante i rigidi inverni. Molti proprietari dei negozi che oggi sono chiusi sono oltre confine, in Cina, per affari. Ormai il paese è privo di giovani e, quindi, di futuro. Gli unici giovani che incontri sono attorno ad un pick-up con l’intento di aggiustare una ruota.

I colori dei templi

Lo Manthang è stata una delusione? Non direi proprio. Il paese non è poi tanto diverso dagli altri incontrati. È solo la parola “capitale” che t’illude. Di bello c’è il poderoso gompa di color rosso e gli innumerevoli templi sparsi lungo le viuzze del villaggio. Guardando questi luoghi dedicati al culto non puoi non paragonarli ai nostri. Aprendo le porte del tempio è come se aprissi la tavolozza dei colori. Il tempio è sì qualcosa che ti porta al rispetto, ma ti porta anche ad una predisposizione d’animo diversa, più serena e sciolta. I nostri luoghi di culto, tranne le ovvie eccezioni, sono per lo più austeri, grigi, incutono una certa soggezione nella loro grandiosità. Qui sono luoghi, mi dice Gopal, dove la gente si raduna per festeggiare. La Chiesa, nel mio modo di sentire, la vedo come luogo da frequentare per rispondere ad un comandamento, una cosa purtroppo completamente diversa, dove alla gioia si contrappone un obbligo.

Difficile trovare qualcosa di autentico

Purtroppo la trascuratezza è evidente come, mi racconta la guida, la depredazione costante, da parte dei collezionisti, dei beni rimasti nei templi. Corruzione e miseria aprono la strada a questi traffici che impoveriscono sempre di più il patrimonio culturale di queste zone.
È ormai raro trovare nei monasteri qualcosa di veramente autentico. Le uniche cose autentiche rimaste sono forse i dipinti alle pareti, anche loro comunque in uno stato di vero degrado. Il resto sono copie di originali andati a rinfoltire le collezioni di qualche magnate in giro per il mondo. Il mercato nero è molto fiorente, alimentato anche dalla complicità di che dovrebbe controllare.

In conclusione

Lo Manthang è l’ultima tappa del mio trek nel Mustang. Ho camminato per 6 giorni e 74 chilometri vedendo un mondo molto lontano dal mio. Come avete letto, le riflessioni non sono mancate e nemmeno gli spunti per capire genti e situazioni diverse. Il viaggio mi è servito non solo a mettermi alla prova fisicamente ma anche a guardarmi un po’ dentro mentre coprivo le distanze tra i vari villaggi.
Alla fine posso dire che il ricordo del viaggio forse sbiadirà con il tempo, ma certamente farò in maniera di non perdere le idee e gli spunti che questa esperienza mi ha lasciato nel cuore.

Il trekking nel Mustang 27/10/2019 Ghami – Tscharang

Da Ghami a Tscharang

Arrivare con le proprie gambe

Oggi la penultima tappa da Ghami a Tscharang; Gopal sta cercando una soluzione per farmi arrivare alla meta senza troppa fatica ma non si trova. L’ultima jeep era promessa ad una comitiva partita prima di noi. Dai, non perdiamoci d’animo e partiamo, né con il cavallo né con la jeep ma con le nostre gambe. Gopal è davanti, Balman dietro. Il passo di Gopal oggi è più lento, forse ha capito che ci separano più di vent’anni e a 3.500 metri si sentono tutti. Saliamo passo dopo passo e alla fine ci siamo. Sono arrivato all’ennesimo passo di questo bellissimo trek. Ce l’ho fatta senza cavallo e senza vettura e ne sono orgoglioso. Ormai voglio arrivare a Lo Manthang solo esclusivamente con le mie gambe. Se questo itinerario mi deve insegnare qualcosa, è quella di avere più fiducia in me stesso e nelle mie capacità. Gopal alla fine ha creduto più in me di quanto non abbia fatto io. Con calma e pazienza ci siamo riusciti. Ora che sono all’ultima tappa prima del mio arrivo a Lo Manthang, mi sembra tutto più facile e possibile.

Indù o Buddista: non centra

Da Ghami a Tscharang

Qui a Tscharang ho visitato un monastero proprio bello. Sono accompagnato nella visita da un monaco. Certo che capire qualcosa di questa religione è proprio un’impresa. Qui la religione è proprio parte integrante e pregnante della vita di chiunque, sia essa induista o buddista. La cosa genuina è che non ne fanno un mistero, anzi per loro è quasi un vanto. Diversità abissale se rapportato al nostro senso religioso. Noi abbiamo quasi vergogna di parlare del nostro rapporto con la religione e con il nostro Dio. Qui passando davanti ad un tempio s’inchinano, sia esso indù o buddista.

Dubbiosi e fragili

Da noi, anni addietro, si faceva il segno della croce passando davanti ad una chiesa. Ora non più! Vergogna, distacco, menefreghismo, disattenzione, non lo so visto che anch’io sono tra queste persone; e forse per me è una forma di vergogna a mostrarmi in pubblico per quello che sono dentro, come se, così facendo, fossi vittima di una sorta di umana debolezza. In una società egocentrica dove tutto posso fare, dove tutto posso raggiungere e dove la forza del singolo vince, costi quel che costi, mostrarsi dubbiosi e fragili riconoscendo i propri limiti di fronte ad una entità spirituale quale essa sia, non è premiante. Si dirà che questa è una società agricola ormai da noi scomparsa, ma non mi basta questa spiegazione.

È questione d’intuito

Da Ghami a Tscharang

Lungo la strada ormai la fatica svanisce e rimango con i miei pensieri. Ma perché mi ritrovo qui, in Nepal, per la quarta volta? Cosa m’attrae di questo mondo tanto lontano e diverso? Guardo dentro di me e mi vedo sempre puntuale, organizzato, programmatore del mio futuro, con questo bisogno di cercare sempre una definizione chiara e logica, un “punto di gravità permanente”, come dice la canzone di Battiato, “che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”, che mi spieghi tutto in maniera fissa e permanente.
Nel contempo vedo questo mondo e, più che capire, intuisco. Forse sono attratto dalla diversità di questa gente, che con il suo fare così “sciolto”, così libero nella semplicità, così profondamente e dignitosamente fragile, mi sta sussurrando che la vita si può cercare di vivere anche senza tanta paura per il futuro, senza il bisogno di una perenne ricerca di sicurezza e di punti fermi e fissi come cerco di crearmi io.

Il senso del trekking

Sono qui in mezzo al nulla e nel silenzio più totale, circondato dal blu e dal giallo dei monti e ancora più forte sento la fragilità di quello che credo essere le mie sicurezze. Il telefonino, l’assicurazione, il denaro. Certo non potrei farne a meno, ma almeno capire che, in mezzo al nulla del silenzio di queste montagne non servono a nulla è importante. Certo non potrei farne a meno ma, capire che il domani nessuno lo può definire con certezza e che quello che cerchi di costruire, molte volte, è vano, è importante. Forse questa è la cifra ed il senso di questo trek.

Il sole è alto e non soffia il vento

Da Ghami a Tscharang

Le persone che ho incontrato hanno risposto sempre con il loro Namaste al mio Mandi, non mi hanno mai evitato abbassando lo sguardo verso lo straniero che vedevano in me come, invece, molte volte mi capita di fare quando incontro un “diverso” nella mia città. C’è questa semplicità di relazione, questo contatto quasi immediato, questa apertura che mi meraviglia. Non credo sia ingenuità, perché la miseria che circonda questi paesi non permette ingenuità; anzi! La risposta che si dà questa gente è il riconoscere la propria singola debolezza e ricorrere al gruppo del parentado e all’amicizia reciproca diventa forza per superare la difficoltà del momento.
Questa filosofia del bisogno rende tutto più flessibile e possibile. Se questo trek fosse in grado di farmi capire che è impossibile ed illusorio cercare “un punto di gravità permanente” mi avrebbe aiutato a crescere e a capire che si può vivere anche in un altro modo.
Sono a Tscharang! Non me ne sono quasi accorto. Il sole è ancora alto e il vento non soffia in maniera impetuosa e le preghiere appese in ogni luogo si muovono dolcemente mettendo una sorta di allegria.

Da Ghami a Tscharang

Il trekking nel Mustang 26/10/2019 Sangbochen – Ghami

Stupendo! Tra Sangbochen e Ghami i paesaggi per me sono unici. Abbiamo raggiunto il passo più alto del trekking: 4.025 metri, una fatica boia, non tanto per le gambe quanto per il fiato. Finalmente sono arrivato alla sommità. Gopal mi aspetta tranquillo e calmo. Scattiamo alcune foto per ricordo. Mi guardo verso Sud Est: trovo le montagne innevate del massiccio dell’Annapurna, il Tilicho Peak, il Dhaulaghiri e tante tante altre. Montagne immense ed enormi. Quante lotte e storie per conquistarle! Giro lo sguardo verso Nord e in fondo, tra i monti gialli ocra, scorgo Ghami.

Sangbochen Ghami

Che bello, sembra quasi essere a casa! Il paesino è bello ma con tanti escrementi a seccare in ogni dove. Non ci sono alberi per accendere il fuoco, non c’è gas e nemmeno cherosene per scaldare una stanza, ma tanti escrementi, quelli sì! Incontro tre ragazzine che mi chiedono ovviamente qualcosa a ricompensa della loro disponibilità ad essere fotografate. Hanno le gerle piene di escrementi. Me le ritroverò vicine per tutto il resto della giornata!
La zona è famosa per le sue patate ed è piena di piccoli stupa dal colore bianco, nero e ocra. Le case sono tutte bianche e i tetti non hanno tegole, ma al loro posto legni ed arbusti a seccare al sole.

Sangbochen Ghami

Sono in cucina e osservo mentre si prepara il cibo. Le pentole a pressione fischiano mentre le mani mescolano i pezzi di pollo insieme ad una specie di besciamella gialla come se stessero per essere impanati. Quando l’amalgama risulta perfetta, giù nella padella a friggere e disinfettarsi. La cucina ha la stessa funzione della nostra osteria. Qui tutti si ritrovano, amici e sconosciuti. Dopo cinque minuti sono tutti amici. Tutti discutono animatamente come se tutti si conoscessero da una vita, ma domani ognuno prenderà la propria strada.

Sangbochen Ghami

Gopal mi mostra la carta: “Domani saremo a Charang”, mi dice, mostrandomi la salita. “Te la senti?” “Beh, anche no” gli rispondo. “Se ci fosse un cavallo o una jeep sarebbe anche meglio. Capisco il trekking, ma se si potesse…”.

Il Trekking nel Mustang 25/10/2019 Chele – Sangbochen

Chele Sangbochen

Gopal tiene il ritmo tra Chele e Sangbochen

Oggi abbiamo fatto il nostro dovere! Quasi 16 sono i chilometri che dividono Chele da Sangbochen. Il problema è che siamo partiti da 3.000 metri per arrivare ai 3.950 metri andando avanti come se fossimo in altalena. Si saliva a 3.650 metri per ridiscendere a 3.250 metri, una tortura per il fiato e le gambe che, alla fine, diventano dure e vanno avanti per inerzia. Gopal tiene il ritmo, passo dopo passo, poi si ferma e mi aspetta. Tra i due paesi si snoda la strada inaugurata un anno fa che collega Pokhara al confine cinese. Opera maestosa che è costata tanti anni di lavoro ma che Gopal sembra non riconoscere come via praticabile.

Un paesaggio lunare

Chele Sangbochen

Appena trova l’occasione taglia per un sentiero capace di saltare un tornante o un lungo tratto. Tra camminare di più con minor fatica – quindi lungo la strada – e camminare di meno con più fatica – lungo i sentieri – lui sceglie sempre la seconda soluzione. Dall’alto vediamo la destinazione, sembra vicina ma non è proprio vero. Inizio ad essere stanco, fa freddo ed il vento si alza impetuoso con raffiche che sollevano un mare di polvere.
Il paesaggio è lunare, il cielo di un blu indaco strepitoso. Le montagne sono prive di alberi. Ci sono solo ciuffi di cespugli che ne rivestono le pendici. Certi declivi sono di un giallo intenso. Camminando mi vengono in mente i colori che ritrovo nei chorten o stupa lungo la strada o gli addobbi nei monasteri. Sono gli stessi colori forti, decisi e saturi della natura. I muri, i ciottoli che sorreggono le case sono di un rosso carico come le porte dei monasteri e come gli interni dei luoghi di culto.

Chele Sangbochen

Non c’è morbidezza o sfumatura nel colore ma forza e decisione nella sua intensità, quasi a richiamare il carattere deciso e orgoglioso di questa gente. Gente che vive con dignitosa compostezza ogni aspetto della giornata, pur nella miseria materiale e nella durezza delle condizioni della vita. È gente di pacatezza unica. Lo noti quando li vedi nel traffico cittadino, alle prese con la mancanza di corrente elettrica, al ritardo di un volo o di un mezzo di trasporto. Non trovo la parola corretta ma non è rassegnazione, che collego a sconfitta, ma una sorta di profondo allenamento alla saggezza. Forse, ciò che mi lascia basito è la filosofia del Buddismo che ha plasmato queste genti ad un distacco e ad una “lontananza” tra le cose della vita quotidiana ed il proprio io. Mi vedo alla fermata dell’autobus quando questo è in ritardo o al telefonino che non prende la linea e vedo loro, nella stessa situazione. Mondi diversissimi e lontanissimi.

Cosa sto cercando?

Chele Sangbochen

Stringo i denti e vado avanti, ma così facendo mastico anche i granelli di sabbia che si sono infilati in bocca nonostante la bandana posta a difesa. Il respiro è affannoso, mi fermo spesso a prendere il fiato che mi manca. Ho fame d’aria! La cima è vicina: ma perché questa fatica? Che senso dare a tutto questo? Questi passi così pesanti in questo bianco borotalco finissimo che senso hanno? La cosa buffa è che forse nemmeno io riesco a darmi una spiegazione. Perché è tutto così irrazionale alla fine? Cosa sto cercando? A cosa serve rinunciare al mio cibo abituale, a cosa serve rinunciare al mio comodo letto o alla mai adorata doccia? A cosa serve stare lontano dalla mia Signora per 21 giorni e venire qui, lungo un sentiero sperduto in un angolo sperduto di mondo tra gente così diversa? Quante domande senza una seria e definitiva risposta!

Doccia

Arrivo a Sangbochen! Non vedo l’ora di farmi una doccia, di lasciare che l’acqua calda mi tolga la sensazione di avere la sabbia, raccolta lungo il percorso, in ogni dove. Bellissimo! Sono avvolto dal vapore. Esco dalla mia stanza e incontro Gopal e il portatore. La loro doccia non funziona. “Gopal, Balman”, dico, “la mia doccia funziona, usatela”. Entrambi mi rispondono con un no orgoglioso e deciso. C’è sempre questa distanza tra cliente e guida o portatore. Non esiste confusione di ruoli tra le parti in gioco. Ognuno recita la propria parte e il proprio ruolo. Il cliente va “servito”. Lo impone la professionalità, che non cede alle lusinghe di una doccia ma rimane fedele ad un concetto. Gente strana questa, che sembra così flessibile, così addomesticabile e votata al compromesso ma che in effetti risulta essere più complessa di quanto sembri al primo contatto.

Il trekking nel Mustang 23/10/2019 Jomsom – Kagbeni

Si parte per la prima tappa Jomsom Kagbeni

Volo bellissimo tra le montagne! Oggi ho conosciuto il portatore, visto che la guida, Gopal, la conosco da tempo: il suo nome è Balman, 47 anni, 5 figli e una vita da portatore. Siamo atterrati con un’ora e mezza di ritardo ma qui, in Nepal, queste cose sono abbastanza normali. Dovevamo partire con il primo volo della giornata ma siamo partiti con il terzo. Si vola quasi a sfiorare le montagne e anche per questo molti voli vengono soppressi quando le condizioni meteo, vedi vento, diventano proibitive. La luce è radente e i campi di riso hanno un colore verde bellissimo.

Arriva il vento

Siamo atterrati e, dopo il solito tea, partiamo. Sarà la nostra prima tappa tra Jomsom e Kagbeni. Gopal dice che il vento inizia verso le 11 e termina verso le 19. Ha proprio ragione! Risaliamo il fiume Kali Gandaki, il paesaggio è brullo e senza vegetazione mentre i picchi più alti, in lontananza, sono carichi di neve. Puntuale arriva il vento, costante e forte. Alza nuvole di polvere che ci ricopre totalmente ed entra in ogni dove. Ci fermiamo a mangiare. Gopal mi consiglia spaghetti mentre lui si presta a divorare un piatto di riso, lenticchie, patate speziate e pollo, il Dal Bhat. Tra lui ed il portatore se ne sono fatti fuori due portate. Riprendiamo il cammino e ormai Kagbeni è vicina. La temperatura scende mentre il vento sale ma siamo ormai a Kagbeni, alloggio al Paradise.

Mi sistemo un po’ e riparto alla scoperta del paesino. Trovo il monastero subito appena fuori il lodge. Pago 200 rupie – circa 2 euro – per visitarlo. I monaci non permettono l’uso di macchine fotografiche ed è visitabile solo una parte del complesso che stanno preparando per una celebrazione. La cosa più suggestiva sono delle maschere che mi ricordano quelle viste a Tangboche quando ho fatto il trekking verso il campo base dell’Everest. Sono così brutte, mi dice il monaco, perché servono a scacciare i demoni.

Manca la luce

Rientro e trovo il lodge al buio. Cavolo!!! E con tutte le ricariche delle batterie che avevo programmato di fare come mi devo muovere? Va bene, non mi resta che aspettare visto che la luce prima delle sette di solito non ritorna. Volevo farmi una doccia ma senza corrente nulla da fare. Decido, prima che la sera diventi notte, di utilizzare gli ultimi spiragli di luce che entrano nella stanza per darmi una lavata con le manopole che la mia moglie mi ha dato in dotazione. “E… mi raccomando”, mi ha detto prima di partire: “una per la parte alta” e “una per la parte bassa”. Fatto questo non mi resta che dotarmi della torcia in attesa della luce che si fa attendere. Doveva arrivare alle 19 ma sono quasi le 20 e ancora nulla. Nel frattempo ho mangiato il classico pollo bello secco e… duro. Si vede che non sono i nostri polli d’allevamento.

Le solite promesse

Sono nella dining room tra sei nepalesi che parlano animatamente, non capisco nulla ma immagino cosa possano dire: guide e portatori alla fine della giornata parlano dei luoghi dove sono passati, dei problemi e delle difficoltà incontrate. Gopal poi mi racconta come anche da loro la politica delle promesse non mantenute vada alla grande. Ma dove finiscono i soldi che i turisti, pagando il permesso, versano allo Stato? Quel ponte, quella strada ci era stata promessa ma nulla si è visto, nulla è stato fatto. Credevo che solo da noi… Non è proprio così, alla fine tante cose ci accomunano specialmente nella gestione della cosa pubblica.

Dal Bhat

“Dal Bhat, rigorosamente solo Dal Bhat!” “Gopal, come potete mangiare sempre la stessa pietanza?” “Siamo abituati, così è”, la sua laconica risposta. “È un piatto completo e si dice che ci dà energia per 24 ore e noi ci crediamo. Quindi non conosciamo altro: mattina e sera Dal Bhat”. La cosa impressionante, almeno per me, è la velocità con la quale le mani, in mancanza di posate, affrontano il cibo. Gesti rapidi e precisi per mescolare il tutto e portare velocemente il cibo in bocca. Alla fine anche le dita ricoperte di riso vengono introdotte nelle fauci per uscirne “pulite”. Fatto spessissimo il bis, ci si alza, ci si porta al lavandino e ci si pulisce. Fatto questo ci si accomoda a gambe incrociate sui banconi ricoperti di pesanti cuscini e si continua a parlare o si telefona alla famiglia.

Una cosa che non manca mai, o quasi, è la linea telefonica! Sento la vocina di un figlio del portatore. Gli occhi s’illuminano. Sì, perché qui la famiglia è proprio ma proprio tutto. Ogni atto, ogni fine è in funzione di questo impegno.

Una società diversa

È una società, e non ho paura di sbagliarmi, profondamente agricola e religiosa. È un mondo dove agricoltura e religione s’intrecciano in maniera continua e profonda. Queste continue feste sono intimamente legate al mondo agreste e al mondo del soprannaturale come tanti e tanti anni fa avveniva nella nostra cultura contadina. Qui essere induisti o buddisti è normale. Non esiste, almeno a mio vedere, un problema di supremazia religiosa. Io induista partecipo anche alle feste buddiste e viceversa. La mia guida induista, quando passa vicino ad un tempio buddista, inchina la testa in segno di rispetto o raccoglie le mani in segno di preghiera.

Il Trekking nel Mustang 24/10/2019 Kagbeni – Chele

Sì! È proprio quello che sognavo a casa. Il paesaggio è proprio quello! Spazi immensi, cieli blu, nuvole alte, cirri che corrono velocemente sospinti da un vento teso che muove e crea anche nuvole di polvere dal terreno. Tutto ha uno spazio diverso. Non sono abituato a vedere questi spazi che sembrano immacolati. Dalle mie parti tutto è “inquinato” dalla presenza umana. Strade, ponti, linee elettriche, asfalto e cemento. Qui no. Giri l’occhio e trovi natura. L’unica cosa che ti collega al mondo è la strada bianca che da Jomsom ti porta fino al confine con la Cina e che è, insieme ai pali di legno della luce, l’unica presenza della civiltà. Giri lo sguardo e il blu del cielo si sposa con il giallo dei monti.

È tutto arido e di una desolante bellezza. Non senti rumori. I pochi alberi sono vicini ai paesini che ogni tanto s’intravedono dall’alto dei sentieri. Anche loro hanno le foglie di un colore verde che tende al giallo. È tutto forte e deciso, come la forza della luce che, colpendo i muri di cinta, crea ombre definite e contrastate. Una luce che non conosco dalle mie parti se non dopo un forte temporale quando il sole, al tramonto, balena tra le nuvole e sembra tutto più pulito e vivido. Qui, forse per mancanza d’inquinamento e forse per l’altezza, la luce è di una vividezza impressionante. Tutto sembra “croccante” e pulito; in certe situazioni, pare di essere in mezzo al deserto anche se l’acqua scorre nei fiumi e al mattino la trovi gelata.

Le escursioni termiche ci sono. Al mattino l’aria è pungente e l’atmosfera secca; sul mezzogiorno la temperatura si fa più calda e i raggi del sole illuminano le cime innevate. Se non ti ripari il volto con gli occhiali e con una crema, sei destinato a bruciarti. Ho fatto il bucato e il vento ha asciugato più del sole.

Questa sera mi ritrovo con Gopal in cucina, dove c’è anche una televisione. È consuetudine per guide e portatori ritrovarsi, a fine giornata, in cucina dove verrà servita loro la cena dopo aver dato da mangiare a tutti i clienti nella sala da pranzo. Il fatto di essere solo, ti dà, a mio avviso, un vantaggio: quello di poter vivere più accanto ai nepalesi. In questo caso sono in cucina e li vedo lì, tutti intenti a vedere la televisione. Quando c’è la corrente funziona come da noi: la tv catalizza l’attenzione di tutti. Il punto è cercare di capire che programmi danno in visione. C’è un’unica rete, da quello che ho capito, che trasmette su sei canali. Ovviamente lo sport, le notizie e l’intrattenimento. Bollywood impazza, ma non sono le serie hollywoodiane, anche se cercano di imitarne le situazioni.

È una rappresentazione molto ingenua delle cose, specialmente nelle relazioni tra le persone. L’onore, la famiglia e la lotta tra il buono e il cattivo, tra il bene e il male ci sono sempre; ma quanta ingenuità rispetto alla nostra televisione! Il clou della trasmissione, questa sera, è la premiazione di una gara di ballo tra diverse compagini di partecipanti. Quei balli – per l’amor del cielo, senza togliere nulla a quello che piace – non terminano mai, fatti di movenze ripetitive e monotone che mi richiamano molto le danze e i suoni cinesi. Loro, guide e portatori, sono rapiti, estasiati, guardano e commentano affascinati i costumi dei ballerini, parteggiano per l’uno o l’altro. C’è veramente tanta distanza tra il loro e il mio mondo. Non perderei un minuto dietro questi programmi, invece loro si mettono a cantare sopra i motivi trasmessi. C’è passione, divertimento e trasporto.

Mi è successo di partecipare ad una rappresentazione di danzerini della casta Thuran; prima d’iniziare lo spettacolo… tutti in piedi a cantare l’inno nazionale. Noi, forse, quando gioca la Nazionale di calcio ci lasciamo prendere un po’ dall’amor patrio. Loro cantano con tale slancio che la giugulare la si vede ben grossa lungo il collo.