Come dice Maitreya nel suo Sublime Continuum del Grande Veicolo (Uttaratantra), “Tutti gli esseri hanno naturalmente la natura del Buddha nel loro continuum”. Noi abbiamo dentro i semi della purezza, e la possibilità di essere trasformati e pienamente sviluppati nella Buddhità.
Om mani padme hum è il più noto e diffuso tra i numerosissimi mantra facenti parte del patrimonio culturale del buddhismo. OM generosità, abbandono dell’avarizia, mente che beneficia gli altri, abbandono della rabbia. MA moralità, non danneggiare gli altri esseri senzienti. NI pazienza, abbandono della rabbia, della gelosia, abbandono dell’ego e dell’attaccamento a sé stessi. PED sforzo entusiastico, elimina la pigrizia ed è rivolto allo studio per eliminare la sofferenza. ME concentrazione, meditazione, concentrazione sulle virtù senza distrazione. OM saggezza, conoscenza di tutti i fenomeni. Fiducia verso il Maestro.
Il Mantra
Mantra letteralmente significa strumento per pensare, anzi, protezione della mente, ed è formato da una sequenza di sillabe sacre che vengono pronunciate dal praticante, profondamente concentrato sull’essenza della divinità che sta per invocare. I mantra, in realtà, non possiedono di per sé alcuna potenza magica, ma sono unicamente i mezzi per concentrare forze già esistenti in ciascuno di noi e, con un’azione simile a quella di un catalizzatore, consentono al credente di entrare nello spazio mistico.
Il sentiero
Om mani padme hum è formato da quattro sillabe-germe che, nell’ordine, hanno il seguente significato: sentiero dell’universalità, sentiero della unificazione e della pace interiore, sentiero della visione creativa, sentiero dell’integrazione. La traduzione più diffusa, anche se solo approssimativa, è: Salve o Gioiello nel Fiore di Loto.
L’amore
Nelle regioni ricadenti sotto l’influenza della religione buddhista, questo mantra si ritrova dappertutto: inciso sulle rocce, scolpito nelle pietre votive che i viandanti depongono sui caratteristici muri di preghiere, dipinto sulle bandiere (chattar) che garriscono nel vento e distribuiscono parole di amore e di pace al mondo intero. L’amore per tutte le creature viventi, anche quelle più semplici e più primitive, è infatti la base filosofica e morale del buddhismo; l’amore che ognuno di noi deve manifestare verso il prossimo per giungere alla liberazione dal dolore ed alla definitiva redenzione di tutto il genere umano.
Uno dei simboli buddisti più famosi è sicuramente il Fiore di Loto, pianta acquatica tipica dell’oriente (è il fiore nazionale dell’India e del Vietnam); può essere di vari colori, ognuno con un proprio significato: il Loto rosa rappresenta il Buddha Supremo ed è considerato il vero fiore di loto della divinità suprema; il Loto bianco rappresenta la purezza di corpo, mente e spirito. Il colore bianco simboleggia il cuore di Buddha; il Loto viola rappresenta il misticismo e la spiritualità. Può essere rappresentato come sbocciato o ancora chiuso, simboleggiando le fasi del percorso spirituale verso l’illuminazione; il Loto rosso rappresenta il cuore, l’amore e la parte passionale dello spirito umani; il Loto blu rappresenta la saggezza, l’intelligenza, la conoscenza e lo studio. Il colore blu simboleggia la vittoria dello spirito sui sensi.
Nodo Infinito (in sanscrito srivatsa, in tibetano dpalbe’u) è un nodo chiuso composto da linee intrecciate ad angolo retto. È uno dei simboli preferiti e maggiormente utilizzati dall’iconografia tibetana. Non ci sono indicazioni precise sulla sua origine: spesso viene paragonato al simbolo nandyavarta, una variante della svastika che presenta diverse similitudini con questo nodo.
Nel buddhismo tibetano è un simbolo classico del modo in cui tutti i fenomeni sono interdipendenti tra loro e dipendono da cause e condizioni (tendrel) che vengono rappresentati dalle linee geometriche che si intersecano tra loro. Non avendo né inizio, né fine simboleggia anche l’infinita conoscenza e saggezza del Buddha e l’eternità dei suoi insegnamenti. Per la sua importanza e semplicità grafica, questo simbolo viene utilizzato anche da solo.
OM Mani Padme Hum è uno dei mantra più popolari al mondo.
È il mantra della compassione e della misericordia Secondo la storia buddista, il mantra proveniva dal Buddha Quan Yin. Fu perso per molti secoli e fu ritrovato e reso popolare dal Buddha Padmasambhava quando viaggiò dall’India al Tibet. Le leggende affermano che ha usato questo mantra per trasmutare i “demoni malvagi” e gli “spiriti della natura malvagia” e li ha convertiti in protettori del dharma. Ciò implica che il mantra ha potenti proprietà trasmutative.
Le bandierine che proteggono
È una potente protezione OM Mani Padme Hum è spesso scritto su pietre e bandiere. Le persone mettono queste bandiere e pietre dentro e intorno alle loro case per proteggersi. Il tasso di vibrazione del mantra è così elevato che ha un effetto purificante. Il modo più efficace per neutralizzare il karma negativo è usare la legge della compassione e della misericordia. Quindi Om Mani Padme Hum diventa uno degli strumenti più importanti per la propria protezione.
Il loto e la saggezza
Contiene segreti per lo sviluppo spirituale L’OM è composto da tre lettere: A, U, M. Simboleggia il corpo, la parola e la mente. Lavorando sui nostri pensieri, parole e azioni, possiamo purificarci per raggiungere il corpo, la parola e la mente pura ed elevata di un Buddha. Mani significa gioiello. Proprio come un gioiello rimuove la povertà, il mantra rimuove la sofferenza. Cosa rimuove? Gli ostacoli nei nostri pensieri, parole e azioni. Purifica la nostra luce interiore, la compassione e la volontà di fare del bene. Padme significa Loto. Simboleggia la saggezza. Proprio come un loto cresce nel fango ma non è influenzato dai difetti del fango, la saggezza ci mette in uno stato di non contraddizione. Secondo MCKS, “Om” è il suono divino. La ripetizione del mantra Om eleva la coscienza. Il corpo mentale, il corpo emozionale e il corpo energetico diventano più luminosi e il loro tasso di frequenza aumenta. Mani significa gioiello. Padme significa fiore di loto. Hum è un’affermazione tibetana come “So Be It” o “Amen”. Il chakra della corona deve essere attivato per ottenere l’illuminazione o per sperimentare la propria natura di Buddha. Questo è il significato di Padme – il fiore di loto dorato sulla corona.
La purificazione
Il mantra che realizza i desideri MCKS dice: “Se i pensieri negativi vengono da te ancora e ancora, ripeti un mantra e concentrati sul mantra, piuttosto che sulla negatività che viene verso di te. Quando ti concentri sul mantra, non ti immergerai in pensieri ed emozioni negative”. “Questo ti dà la possibilità di concentrarti sul raggiungimento dei tuoi obiettivi”. Il canto del mantra Om Mani Padme Hum purifica il corpo mentale, il corpo emozionale, il corpo energetico e il corpo fisico. Questo ti dà la chiarezza di cui hai bisogno per come raggiungere i tuoi obiettivi. L’effetto a lungo termine è la purificazione di diverse debolezze come l’orgoglio spirituale e la disonestà verso sé stessi e verso gli altri, pregiudizi, credenze superstiziose. Pulisce anche il chakra del plesso solare da irritazione, rabbia, violenza, gelosia e invidia. Il secondo chakra è purificato dalla passione e dell’avidità. Ciò significa che puoi vedere le cose come sono, senza offuscare il tuo giudizio, e quindi sei in grado di prendere le giuste decisioni per concretizzare i tuoi desideri. La ripetizione di questo mantra porta la discesa delle benedizioni e dell’energia divina dal Buddha della Misericordia e della Compassione alla persona che lo recita. Energeticamente, l’energia divina del Buddha Avalokiteshvara entra nella corona, quindi nel corpo e si irradia verso l’esterno. La persona che lo recita e le altre persone e gli esseri intorno a lui sperimenteranno la calma e la pace interiore.
Oggi la tappa prevedete la partenza da Pangboche e arrivo a Namche Bazar (3.440m.)
La cerimonia al tempio
Oggi è la giornata che sarà dedicata alla cerimonia buddista che si tiene nel Monastero di Tengboche. Come ho già scritto, non capisco nulla del Buddha e me ne dolgo. Non è il massimo compiere un simile viaggio senza una minima infarinatura. Pazienza! Cercherò non tanto di capire la cerimonia ma di viverne l’atmosfera e lo spirito. La prima sensazione, ma che ho consolidato nell’oretta che mi sono fermato al monastero, è che la cerimonia non mi sembra solo una manifestazione della religiosità delle genti della vallata ma anche una rappresentazione teatrale alla quale tutta la gente viene coinvolta.
La danza ritmata
Ci sono certamente i monaci, con le loro litanie ritmate dal suono del gong o dai piatti, dal tamburo e da una sorta di lunghissime trombe. Litanie monotone e dal ritmo quasi ossessivo. Terminate, si da corso ad una rappresentazione quasi teatrale. Dalla porta del monastero scendono i monaci con dei costumi dai colori fantastici. Iniziano una danza ritmata fatta di movimenti che richiamano quelli delle arti marziali. I movimenti sono lenti e a scatti. I monaci girano intorno ad una specie di altare per dopo ritornare sui loro passi dopo aver “incensato” l’altare ed aver sparso acqua sulla gente come in una sorta di nostra benedizione.
Anche tea e latte
Più la cerimonia prosegue e maggiormente riconosco in essa dei tratti che potrebbero ricondurla ad una nostra messa. L’incenso, la benedizione, per arrivare ad una specie di offertorio, quando un monaco appresta un tavolino pieno zeppo di frutti che poi viene offerto ad un monaco. La gente guarda rilassata e sorridente. Tra una danza e una litania viene offerto ai presenti del tea con latte. Ho l’impressione di un momento religioso vissuto in maniera molto diversa in confronto alle nostre messe.
Festa e comandamento
Qui la gente sorride, chiacchiera è molto rilassata, come dicevo, sembra di assistere ad una cerimonia teatrale. La nostra messa mi rimanda a qualcosa di più rigido, strutturato e formale. Qui c’è festa, da noi comandamento. I turisti si accalcano ai bordi della piccola piazzetta interna al monastero con macchine fotografiche e cineprese per immortalare i meravigliosi colori dei costumi ma anche dei copricapo delle donne . Mi viene in mente come, molte volte, ci siano delle compensazioni impressionanti e forse, logiche nelle cose. A vedere i paesaggi, oltre certe altezze, così brulli e monotoni nel colore ti portano ad una sorte di tristezza e mestizia, in compenso vedi i colori dei copricapi delle donne, i colori che adornano i templi, quasi pacchiani e violenti nella loro esuberanza e leggi, in questo, una sorta di ribellione e rivincita di una gente semplice e genuina.
Si ricomincia a camminare
Dopo questa esperienza mi viene in mente la possibilità di chiedere a BeBe qualcosa in merito alla religione e sul Buddha, sperando di colmare, almeno in parte, la mia curiosità. Nulla da fare, la risposta della guida è abbastanza emblematica. “Queste cose”, mi dice, “fanno parte della cultura e non sono per me. Chiedimi di sentieri, distanze e montagne ma non queste cose, che non le conosco. Se vuoi sapere qualcosa potresti rivolgerti a Mr Govinda, lui si conosce”. Rimango male da questa risposta. Certo anch’io avrei potuto interessarmi prima della partenza ma questo è un limite proprio, anche della guida a livello professionale. Con questi pensieri proseguiamo il nostro cammino. Comincio veramente ad essere stanco fisicamente.
Sto camminando più piano
Non solo della giornata in se stessa ma della somma di tutte le giornate. Ogni salita mi pesa sempre di più. Ogni curva, che continua con una curva, diventa motivo di lamento. Si avvicina Namche, come si avvicina l’imbrunire. Mi accorgo di aver diminuito l’andatura. Per la prima volto mi dico: ancora due giorni. Devo essere onesto, anche a livello psicologico comincio a cedere. È la ripetitività delle cose che pesa. Lo zaino ogni giorno come il borsone, la colazione e il cibo.
Mi mancano ancora due giorni
Si proprio il cibo sta diventando una questione pesante. È la sua monotonia che sta diventando terribile. Non sono arrivato alla nausea ma quasi. L’odore, se all’inizio era riconosciuto come piacevole dal mio olfatto, ora sta diventando quasi stomachevole. È indice che sto arrivando al limite. Per fortuna ho ancora due giorni. Con sempre maggiore frequenza penso al bagno dell’albergo Malla a Kathmandu. Sono alla frutta! La strada si snoda lungo un falsopiano interminabile. Ogni curva uno stupa con le sue preghiere. C’è molta gente lungo la strada e anche molte mandrie anche se l’ora è un pò tarda. BeBe mi dice che oggi, sabato, è festivo per i nepalesi e che, a Namche Bazar, ogni sabato si tiene il mercato.
Oggi partiamo da Lobuche arriviamo all’Everest Base Camp e rientriamo a Gorak Shep (5.125 m.). Possiamo dire che oggi raggiungo lo scopo e l’obiettivo del trekking. Ogni sforzo e fatica troverà la sua conclusione raggiungendo questo posto ormai per me simbolico.
Ma il Monte Everest si vede a fatica
È proprio il grande giorno. La pastiglia di diuretico ha fatto il suo lavoro mi sento bene. Nessun dolore strano alla testa. Partiremo da Lobuche per raggiungere, ad ora di pranzo, Gorak Shep e, dopo pranzato dovremmo proseguire per il campo base per fare ritorno al Gorak Shep nel pomeriggio. Sono circa 20 chilometri il dislivello non è eccessivo quello che taglia le gambe sono i continui saliscendi. La parte finale del sentiero, prospiciente il campo base, è posto sul khumbu Glacier e quindi avrò modo di provare anche questa emozione. La cosa strana del trekking è che l’Everest, la montagna più alta, è quella che si vede con maggiore difficoltà. Non essendo mai in primo piano ma sempre “coperta” da altre cime.
Ghiaccio tutto attorno
Arrivati al campo base pensereste di poterlo vedere e ammirare. Nulla di più sbagliato. l’Everest rimane sempre nascosto. Dal sentiero c’è solo un momento nel quale vedi la sua cima, a forma di cuspide, e qualcuno deve avvertirti, come nel mio caso, altrimenti corri proprio il rischio di non vederlo nemmeno. La montagna in se, non dice nulla nella sua forma tozza se non per il fatto che è la più alta del mondo. Quello che m’impressiona maggiormente è il ghiacciaio. Raccoglie le nevi di un bacino che, partendo dal Pumo Ri sul lato sinistro, arriva sino al Lhotse sulla destra, con nel mezzo l’Everest. Vedo la cascata di ghiaccio appena sopra il campo base. La sua non è una superficie piana ma irta si blocchi di ghiaccio spezzatisi lungo il trascinamento a valle.
Le immancabili bandierine
La pressione al suo interno deve essere enorme. Il movimento di questa massa erode e trascina, nel suo avanzare, ogni cosa. Ne è testimonianza la quantità di massi piccoli o enormi che circonda tutta la zona. Per arrivare al punto indicato come Everest Base Camp è necessario camminare proprio sul ghiacciaio. Sia a destra che a sinistra si aprono profondi e impressionanti crepacci. Al loro interno c’è dell’acqua ghiacciata come se, durante il periodo più caldo, si venissero a formare dei laghetti Con BeBe finalmente arriviamo al punto marcato come campo base. Un grande masso con l’indicazione: Everest Base Camp 5.364 metri. Dal masso partono le solite preghiere. I trekkers si accalcano per le classiche fotografie. Ne hanno ben motivo. Il posto in se non dice nulla se non il suggello di una meta raggiunta, di un obiettivo centrato.
Un viaggio in solitaria
Anch’io, mentre mi giro intorno a questo masso, mi chiedo se ne è valsa la pena e il sacrificio. La risposta sembra quasi ovvia. Certo che ne è valsa la pena! Ma è una affermazione che pecca di ovvietà, essendo io l’autore del trekking. Cosa potresti dire di diverso se non rinnegare un anno di progetti e ipotesi? Rispondo che essere qui certifica non solo un obiettivo raggiunto ma, ancor più interessante, è un’esperienza che aggiungerò al mio bagaglio. È un coronare un processo di idee venutesi a coagulare in questo viaggio. In fondo il mio è stato in viaggio solitario, pur essendo con una guida e un portatore, fatto in luoghi lontani dalla così detta “nostra civiltà”. Solo con i miei dubbi ma anche con il desiderio di riuscire.
Certamente arrivare qui da solo ha avuto un grosso limite che è stato quello della mancanza di condivisione di quanto fatto. È stata un’esperienza solo mia. È un peccato non aver avuto alternative alla solitudine. Sull’altro lato della medaglia ci sono alcuni aspetti di questa solitudine che mi hanno particolarmente arricchito. La fiducia in me stesso, nel crederci. La consapevolezza che dovevo bastarmi e che non avevo nessuno dietro a me. Certo, ho avuto la guida. Ma, in effetti, è stata una persona che mi ha accompagnato assecondando i miei desideri. Quindi mi sono mosso in funzione di un mio obiettivo e desiderio, pagato con fatica e stanchezza. Mi risveglio dai miei pensieri. Sento la gente vociare con lingue diverse.
Stanchi ma contenti
Sono tutti contenti e stanchi. Alcuni prendono il sole, altri si dissetano, altri ancora si fotografano vicendevolmente. Anch’io scatto e mi faccio fotografare da BeBe. Anch’io ci sono! Ho impiegato tanto tempo per arrivarci che è assurdo ripartire così in fretta. Ma purtroppo, non può essere diverso. Dobbiamo rientrare a Gorak Shep. “Tutto finito” mi ripeto? Purtroppo questa parte del trekking si! Ora posso solo scendere e contare i giorni che mi separano dal rientro. Tristezza o felicità? Sono le domande che mi pongo ritornando sui mie passi.
Ma è meglio che tiri le conclusioni alla fine mi dico . Ora è troppo presto. Vorrei lasciare decantare il tutto prima di parlare di tristezza o felicità. Ritornare sui propri passi per me è sempre strano in quanto vedo, comunque, cose diverse da prima. Ora ho il sole quasi in faccia. È accecante, pur essendo sceso preannunciando un meraviglioso imbrunire. Le ombre si stanno facendo più lunghe e pur essendoci il sole la temperatura si è abbassata. Mi giro indietro per guardare quel punto in mezzo al ghiacciaio lo riconosco per il colore sgargiante delle bandierine. Anche gli ultimi trekkers se ne stanno andando. Sono stato lì, mi ripeto, con soddisfazione. Sono stato dove nessuno che conosco è stato.
La realtà come fatto soggettivo
Questo ricordo e questa esperienza sarà sempre dentro di me e nessuno me la potrà cancellare. È un mio tesoro! Mi rigiro guardando i raggi del sole che si riflettono su un piccolo ruscello. Dei trekkers mi superano, vorrei rallentare il mio cammino per spostare nel tempo il momento del distacco da questo mondo se vuoi freddo e ostile ma profondamente coinvolgente. BeBe è davanti a me sta parlando con un’altra guida. Come siamo strani! Chissà quante volte ha toccato questi posti? Forse tante di quelle volte che per lui hanno perso quel velo epico che do io alle cose. In effetti è vero, la montagna è là fredda, inanimata sono i nostri occhi, i miei occhi, a dipingerla con il colore della mia cultura ed esperienza.
Come siamo diversi e unici mi ripeto vedendo in lontananza i primi lodges di Gorak Shep.Sulla destra scorgo il sentiero per il Kala Patthar. Non ci salirò! Mi sento appagato e gratificato. È stata una giusta scelta quella di “partecipare” come spettatore alla cerimonia Buddista che si terrà al monastero di Tengboche anche se della filosofia del Buddha non so nulla. Sulla sinistra, fatti pochi passi, e a proposito dell’uomo di com’è strano, m’imbatto in una persona grande e grossa che si sta divertendo a 5.000 m., con un aquilone. Siamo veramente tutti unici e diversi. Siamo arrivati al lodge. Ho desiderio di un tea. La giornata è stata lunga e fuori il cielo si è scurito parecchio guardo dalla finestra vedo le neve e il profilo delle vette. Apro una finestra e scorgo il luccichio tremolante delle prime stelle. Ormai è buio.