06 Novembre 2014 – Giovedì
Oggi partiamo da Lobuche arriviamo all’Everest Base Camp e rientriamo a Gorak Shep (5.125 m.). Possiamo dire che oggi raggiungo lo scopo e l’obiettivo del trekking. Ogni sforzo e fatica troverà la sua conclusione raggiungendo questo posto ormai per me simbolico.
Ma il Monte Everest si vede a fatica
È proprio il grande giorno. La pastiglia di diuretico ha fatto il suo lavoro mi sento bene. Nessun dolore strano alla testa. Partiremo da Lobuche per raggiungere, ad ora di pranzo, Gorak Shep e, dopo pranzato dovremmo proseguire per il campo base per fare ritorno al Gorak Shep nel pomeriggio. Sono circa 20 chilometri il dislivello non è eccessivo quello che taglia le gambe sono i continui saliscendi. La parte finale del sentiero, prospiciente il campo base, è posto sul khumbu Glacier e quindi avrò modo di provare anche questa emozione. La cosa strana del trekking è che l’Everest, la montagna più alta, è quella che si vede con maggiore difficoltà. Non essendo mai in primo piano ma sempre “coperta” da altre cime.
Ghiaccio tutto attorno
Arrivati al campo base pensereste di poterlo vedere e ammirare. Nulla di più sbagliato. l’Everest rimane sempre nascosto. Dal sentiero c’è solo un momento nel quale vedi la sua cima, a forma di cuspide, e qualcuno deve avvertirti, come nel mio caso, altrimenti corri proprio il rischio di non vederlo nemmeno. La montagna in se, non dice nulla nella sua forma tozza se non per il fatto che è la più alta del mondo. Quello che m’impressiona maggiormente è il ghiacciaio. Raccoglie le nevi di un bacino che, partendo dal Pumo Ri sul lato sinistro, arriva sino al Lhotse sulla destra, con nel mezzo l’Everest. Vedo la cascata di ghiaccio appena sopra il campo base. La sua non è una superficie piana ma irta si blocchi di ghiaccio spezzatisi lungo il trascinamento a valle.
Le immancabili bandierine
La pressione al suo interno deve essere enorme. Il movimento di questa massa erode e trascina, nel suo avanzare, ogni cosa. Ne è testimonianza la quantità di massi piccoli o enormi che circonda tutta la zona. Per arrivare al punto indicato come Everest Base Camp è necessario camminare proprio sul ghiacciaio. Sia a destra che a sinistra si aprono profondi e impressionanti crepacci. Al loro interno c’è dell’acqua ghiacciata come se, durante il periodo più caldo, si venissero a formare dei laghetti Con BeBe finalmente arriviamo al punto marcato come campo base. Un grande masso con l’indicazione: Everest Base Camp 5.364 metri. Dal masso partono le solite preghiere. I trekkers si accalcano per le classiche fotografie. Ne hanno ben motivo. Il posto in se non dice nulla se non il suggello di una meta raggiunta, di un obiettivo centrato.
Un viaggio in solitaria
Anch’io, mentre mi giro intorno a questo masso, mi chiedo se ne è valsa la pena e il sacrificio. La risposta sembra quasi ovvia. Certo che ne è valsa la pena! Ma è una affermazione che pecca di ovvietà, essendo io l’autore del trekking. Cosa potresti dire di diverso se non rinnegare un anno di progetti e ipotesi? Rispondo che essere qui certifica non solo un obiettivo raggiunto ma, ancor più interessante, è un’esperienza che aggiungerò al mio bagaglio. È un coronare un processo di idee venutesi a coagulare in questo viaggio. In fondo il mio è stato in viaggio solitario, pur essendo con una guida e un portatore, fatto in luoghi lontani dalla così detta “nostra civiltà”. Solo con i miei dubbi ma anche con il desiderio di riuscire.
Certamente arrivare qui da solo ha avuto un grosso limite che è stato quello della mancanza di condivisione di quanto fatto. È stata un’esperienza solo mia. È un peccato non aver avuto alternative alla solitudine. Sull’altro lato della medaglia ci sono alcuni aspetti di questa solitudine che mi hanno particolarmente arricchito. La fiducia in me stesso, nel crederci. La consapevolezza che dovevo bastarmi e che non avevo nessuno dietro a me. Certo, ho avuto la guida. Ma, in effetti, è stata una persona che mi ha accompagnato assecondando i miei desideri. Quindi mi sono mosso in funzione di un mio obiettivo e desiderio, pagato con fatica e stanchezza. Mi risveglio dai miei pensieri. Sento la gente vociare con lingue diverse.
Stanchi ma contenti
Sono tutti contenti e stanchi. Alcuni prendono il sole, altri si dissetano, altri ancora si fotografano vicendevolmente. Anch’io scatto e mi faccio fotografare da BeBe. Anch’io ci sono! Ho impiegato tanto tempo per arrivarci che è assurdo ripartire così in fretta. Ma purtroppo, non può essere diverso. Dobbiamo rientrare a Gorak Shep. “Tutto finito” mi ripeto? Purtroppo questa parte del trekking si! Ora posso solo scendere e contare i giorni che mi separano dal rientro. Tristezza o felicità? Sono le domande che mi pongo ritornando sui mie passi.
Ma è meglio che tiri le conclusioni alla fine mi dico . Ora è troppo presto. Vorrei lasciare decantare il tutto prima di parlare di tristezza o felicità. Ritornare sui propri passi per me è sempre strano in quanto vedo, comunque, cose diverse da prima. Ora ho il sole quasi in faccia. È accecante, pur essendo sceso preannunciando un meraviglioso imbrunire. Le ombre si stanno facendo più lunghe e pur essendoci il sole la temperatura si è abbassata. Mi giro indietro per guardare quel punto in mezzo al ghiacciaio lo riconosco per il colore sgargiante delle bandierine. Anche gli ultimi trekkers se ne stanno andando. Sono stato lì, mi ripeto, con soddisfazione. Sono stato dove nessuno che conosco è stato.
La realtà come fatto soggettivo
Questo ricordo e questa esperienza sarà sempre dentro di me e nessuno me la potrà cancellare. È un mio tesoro! Mi rigiro guardando i raggi del sole che si riflettono su un piccolo ruscello. Dei trekkers mi superano, vorrei rallentare il mio cammino per spostare nel tempo il momento del distacco da questo mondo se vuoi freddo e ostile ma profondamente coinvolgente. BeBe è davanti a me sta parlando con un’altra guida. Come siamo strani! Chissà quante volte ha toccato questi posti? Forse tante di quelle volte che per lui hanno perso quel velo epico che do io alle cose. In effetti è vero, la montagna è là fredda, inanimata sono i nostri occhi, i miei occhi, a dipingerla con il colore della mia cultura ed esperienza.
Come siamo diversi e unici mi ripeto vedendo in lontananza i primi lodges di Gorak Shep.Sulla destra scorgo il sentiero per il Kala Patthar. Non ci salirò! Mi sento appagato e gratificato. È stata una giusta scelta quella di “partecipare” come spettatore alla cerimonia Buddista che si terrà al monastero di Tengboche anche se della filosofia del Buddha non so nulla. Sulla sinistra, fatti pochi passi, e a proposito dell’uomo di com’è strano, m’imbatto in una persona grande e grossa che si sta divertendo a 5.000 m., con un aquilone. Siamo veramente tutti unici e diversi. Siamo arrivati al lodge. Ho desiderio di un tea. La giornata è stata lunga e fuori il cielo si è scurito parecchio guardo dalla finestra vedo le neve e il profilo delle vette. Apro una finestra e scorgo il luccichio tremolante delle prime stelle. Ormai è buio.