Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep (5.125m.)

06 Novembre 2014 – Giovedì

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Oggi partiamo da Lobuche arriviamo all’Everest Base Camp e rientriamo a Gorak Shep (5.125 m.). Possiamo dire che oggi raggiungo lo scopo e l’obiettivo del trekking. Ogni sforzo e fatica troverà la sua conclusione raggiungendo questo posto ormai per me simbolico.

Ma il Monte Everest si vede a fatica

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

È proprio il grande giorno. La pastiglia di diuretico ha fatto il suo lavoro mi sento bene. Nessun dolore strano alla testa. Partiremo da Lobuche per raggiungere, ad ora di pranzo, Gorak Shep e, dopo pranzato dovremmo proseguire per il campo base per fare ritorno al Gorak Shep nel pomeriggio. Sono circa 20 chilometri il dislivello non è eccessivo quello che taglia le gambe sono i continui saliscendi. La parte finale del sentiero, prospiciente il campo base, è posto sul khumbu Glacier e quindi avrò modo di provare anche questa emozione. La cosa strana del trekking è che l’Everest, la montagna più alta, è quella che si vede con maggiore difficoltà. Non essendo mai in primo piano ma sempre “coperta” da altre cime.

Ghiaccio tutto attorno

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Arrivati al campo base pensereste di poterlo vedere e ammirare. Nulla di più sbagliato. l’Everest rimane sempre nascosto. Dal sentiero c’è solo un momento nel quale vedi la sua cima, a forma di cuspide, e qualcuno deve avvertirti, come nel mio caso, altrimenti corri proprio il rischio di non vederlo nemmeno. La montagna in se, non dice nulla nella sua forma tozza se non per il fatto che è la più alta del mondo. Quello che m’impressiona maggiormente è il ghiacciaio. Raccoglie le nevi di un bacino che, partendo dal Pumo Ri sul lato sinistro, arriva sino al Lhotse sulla destra, con nel mezzo l’Everest. Vedo la cascata di ghiaccio appena sopra il campo base. La sua non è una superficie piana ma irta si blocchi di ghiaccio spezzatisi lungo il trascinamento a valle.

Le immancabili bandierine

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

La pressione al suo interno deve essere enorme. Il movimento di questa massa erode e trascina, nel suo avanzare, ogni cosa. Ne è testimonianza la quantità di massi piccoli o enormi che circonda tutta la zona. Per arrivare al punto indicato come Everest Base Camp è necessario camminare proprio sul ghiacciaio. Sia a destra che a sinistra si aprono profondi e impressionanti crepacci. Al loro interno c’è dell’acqua ghiacciata come se, durante il periodo più caldo, si venissero a formare dei laghetti Con BeBe finalmente arriviamo al punto marcato come campo base. Un grande masso con l’indicazione: Everest Base Camp 5.364 metri. Dal masso partono le solite preghiere. I trekkers si accalcano per le classiche fotografie. Ne hanno ben motivo. Il posto in se non dice nulla se non il suggello di una meta raggiunta, di un obiettivo centrato.

Un viaggio in solitaria

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Anch’io, mentre mi giro intorno a questo masso, mi chiedo se ne è valsa la pena e il sacrificio. La risposta sembra quasi ovvia. Certo che ne è valsa la pena! Ma è una affermazione che pecca di ovvietà, essendo io l’autore del trekking. Cosa potresti dire di diverso se non rinnegare un anno di progetti e ipotesi? Rispondo che essere qui certifica non solo un obiettivo raggiunto ma, ancor più interessante, è un’esperienza che aggiungerò al mio bagaglio. È un coronare un processo di idee venutesi a coagulare in questo viaggio. In fondo il mio è stato in viaggio solitario, pur essendo con una guida e un portatore, fatto in luoghi lontani dalla così detta “nostra civiltà”. Solo con i miei dubbi ma anche con il desiderio di riuscire.

Everest Base Camp
Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Certamente arrivare qui da solo ha avuto un grosso limite che è stato quello della mancanza di condivisione di quanto fatto. È stata un’esperienza solo mia. È un peccato non aver avuto alternative alla solitudine. Sull’altro lato della medaglia ci sono alcuni aspetti di questa solitudine che mi hanno particolarmente arricchito. La fiducia in me stesso, nel crederci. La consapevolezza che dovevo bastarmi e che non avevo nessuno dietro a me. Certo, ho avuto la guida. Ma, in effetti, è stata una persona che mi ha accompagnato assecondando i miei desideri. Quindi mi sono mosso in funzione di un mio obiettivo e desiderio, pagato con fatica e stanchezza. Mi risveglio dai miei pensieri. Sento la gente vociare con lingue diverse.

Stanchi ma contenti

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Sono tutti contenti e stanchi. Alcuni prendono il sole, altri si dissetano, altri ancora si fotografano vicendevolmente. Anch’io scatto e mi faccio fotografare da BeBe. Anch’io ci sono! Ho impiegato tanto tempo per arrivarci che è assurdo ripartire così in fretta. Ma purtroppo, non può essere diverso. Dobbiamo rientrare a Gorak Shep. “Tutto finito” mi ripeto? Purtroppo questa parte del trekking si! Ora posso solo scendere e contare i giorni che mi separano dal rientro. Tristezza o felicità? Sono le domande che mi pongo ritornando sui mie passi.

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Ma è meglio che tiri le conclusioni alla fine mi dico . Ora è troppo presto. Vorrei lasciare decantare il tutto prima di parlare di tristezza o felicità. Ritornare sui propri passi per me è sempre strano in quanto vedo, comunque, cose diverse da prima. Ora ho il sole quasi in faccia. È accecante, pur essendo sceso preannunciando un meraviglioso imbrunire. Le ombre si stanno facendo più lunghe e pur essendoci il sole la temperatura si è abbassata. Mi giro indietro per guardare quel punto in mezzo al ghiacciaio lo riconosco per il colore sgargiante delle bandierine. Anche gli ultimi trekkers se ne stanno andando. Sono stato lì, mi ripeto, con soddisfazione. Sono stato dove nessuno che conosco è stato.

Everest
Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

La realtà come fatto soggettivo

Questo ricordo e questa esperienza sarà sempre dentro di me e nessuno me la potrà cancellare. È un mio tesoro! Mi rigiro guardando i raggi del sole che si riflettono su un piccolo ruscello. Dei trekkers mi superano, vorrei rallentare il mio cammino per spostare nel tempo il momento del distacco da questo mondo se vuoi freddo e ostile ma profondamente coinvolgente. BeBe è davanti a me sta parlando con un’altra guida. Come siamo strani! Chissà quante volte ha toccato questi posti? Forse tante di quelle volte che per lui hanno perso quel velo epico che do io alle cose. In effetti è vero, la montagna è là fredda, inanimata sono i nostri occhi, i miei occhi, a dipingerla con il colore della mia cultura ed esperienza.

Lobuche – Everest Base Camp – Gorak Shep

Come siamo diversi e unici mi ripeto vedendo in lontananza i primi lodges di Gorak Shep.Sulla destra scorgo il sentiero per il Kala Patthar. Non ci salirò! Mi sento appagato e gratificato. È stata una giusta scelta quella di “partecipare” come spettatore alla cerimonia Buddista che si terrà al monastero di Tengboche anche se della filosofia del Buddha non so nulla. Sulla sinistra, fatti pochi passi, e a proposito dell’uomo di com’è strano, m’imbatto in una persona grande e grossa che si sta divertendo a 5.000 m., con un aquilone. Siamo veramente tutti unici e diversi. Siamo arrivati al lodge. Ho desiderio di un tea. La giornata è stata lunga e fuori il cielo si è scurito parecchio guardo dalla finestra vedo le neve e il profilo delle vette. Apro una finestra e scorgo il luccichio tremolante delle prime stelle. Ormai è buio.

Dingboche – Lobuche

Dingboche – Lobuche (4.910 m.)

05 Novembre 2014 – Mercoledì

Dingboche – Lobuche

Si parte da Dingboche per arrivare a Lobuche

Dingboche – Lobuche

Lungo questo tratto da Dingboche a Lobuche cominci a prendere contatto con le principali cime che ci terranno compagnia lungo tutta la giornata e nei giorni a venire. il Taboche Peak (6367 m.), il Cholatse (6.335 m.), il Lobuche (6.119 m.), il Pumo Ri (7.165 m.), al confine con la Cina – Tibet come il Lingtren (6749 m.), il Lhotse (8.501 m.), il Makalu (8.462 m.), il Nupte (7.861 m.) l’Island Peak ( 6.189 m.). Mi sono dilungato per marcare il fatto che mi sono sentito proprio immerso, quasi soffocato da queste vette enormi e possenti. È una immensità, come sapere che, oltre a queste barriere naturali, c’è la Cina, il Tibet. Cose che ho studiato anni fa a scuola. Marco Polo, la via della seta, Gengiscan. Impossibile crederci ed esserci ma …… ci sono, vedo, assorbo.

Tutti in marcia

Dingboche – Lobuche

Sto camminando su un falsopiano il sentiero è perso tra la polvere i trekkers si spandono in questa grandezza. Non siamo in fila indiana lungo un sentiero segnato ma siamo sparsi in un’immensità. È una processione verso non so nemmeno io dove. C’è una mescolanza di nazionalità di genere e di età. Portatori con ogni cosa caricata sulla schiena dalle porte ai generi alimentari. Guide, turisti, e animali, tutti in marcia verso una meta e verso un fine. Gente che si ferma per raccogliere le forze, chi per fotografare, chi per aspettare l’amico rimasto indietro, chi per bere. Il sole è alto nel cielo. Arriviamo a Dughla (4.620 m.) qui c’è un ponte su un fiume che scende dal Khumbu Glacier.

Una durissima salita

Dingboche – Lobuche

Alzo lo sguardo e vedo, innanzi a me una salita a dir poco impressionante. È una processione di piccolissime persone che salgono, questa volta tutte in fila indiana, lentissimamente. E io dovrei salire fin lassù? Mano a mano che ci avviciniamo all’attacco di questa salita mi prende lo sconforto. Mi ci vorranno minuti e minuti per arrivare in cima. La gente si ferma ogni cinque, dieci metri a cercare di prendere quell’aria che si è fatta sempre più inafferrabile e sfuggente. Non posso che iniziare anch’io. Passo dopo passo BeBe, innanzi a me, mantiene un minimo di cadenza. È durissimo, mi fermo in continuazione. Ho il cuore in gola. Vedo le persone alla fine della salita, piccole piccole. Mi faccio forza e avanzo. BeBe fa dieci passi poi si ferma, aspettandomi. Io arrivo ansimando. Aspetta fino a quando si accorge che il respiro si calma e riparte. Uno dopo l’altro superiamo i tornanti, fino alla sommità.

Lo Stone Memorials

Dingboche – Lobuche

Le guide e i portatori ci aspettano e, nel frattempo, parlano tra loro quasi non curanti dell’invidia che mi fanno. Io ansimo e loro così con noncuranza hanno anche il coraggio di sorridere, marcando la differenza di abitudine all’altezza esistente tra noi e loro. È un noi onnicomprensivo di tutte le nazionalità possibili, dai piccoli giapponesi con l’immancabile Nikon, ai possenti teutonici. Passiamo sotto una lunga processione di preghiere agitate dal vento. Ci fermiamo a riprendere “fiato” o meglio, alla ricerca del fiato perduto. Ai miei occhi si presenta una spianata puntellata di tumuli: sono cippi commemorativi di Sherpa che hanno perso la vita tra questi monti. È lo Stone Memorials. È proprio alla fine del Khumbu Glacier, che si alimenta da gran parte delle montagne che ho elencato in precedenza compreso l’Everest, che ancora non si vede, quasi a compiacersi di giocare a nascondino. La testa mi fa male ma non me ne curo e, a questo punto decido di non mollare. Mi sono fatto un’esperienza che mi dice che in serata mi prendo un diuretico e la cosa la sistemiamo così.

La strada sembra non finire mai

Dingboche – Lobuche

Adesso proprio non cedo. BeBe estrae dallo zaino un coltellaccio e un pacchetto. Lo disfa e dentro … un pezzo di formaggio. Taglia una fetta e la porge a me e a Samir. “Grazie” gli dico. Ci sediamo e mangiamo. È la prima volta che mangio insieme a lui. Che strano. Sono stanchissimo ma non ho alternativa se non quella di camminare e camminare, la strada sembra non finire mai. Ma finisce anch’essa per oggi a Lobuche. Il lodge è grande e affollatissimo di gente proveniente da tutto il mondo. C’è chi legge, chi scrive, chi sente musica e chi parla. I portatori circondano la onnipresente stufa. Non ho mai visto animosità tra queste persone, è come se misurassero ogni gesto, ogni sguardo. Le guide cercano d’interagire con i propri clienti. Molte volte, anzi spessissimo, non ci si capisce ma si fa finta di capire o si rigira la frase. Ma non ci si arrabbia c’è una specie di euforia. Che sia l’altezza? Sono le 17:30 e tutti aspettano la distribuzione del “rancio” in un festoso chiacchiericcio. Mangio il solito.

La schiena e la fatica

Dingboche – Lobuche

Ormai comincio ad averne a noia. Zuppa di lenticchie, riso, riso e zuppa di lenticchie. Bastaaa! Alla fine ingurgito anche il diuretico accompagnandolo con il tea. Vedremo che effetto mi farà! Ormai e dentro e non ci posso far nulla. La cucina è un luogo veramente strano. È il ritrovo di tutte le guide. Finita “l’assistenza” al turista, s’infilano dentro la porta che conduce in cucina e lì oltre a mangiare se la raccontano. Con questi pensieri mi alzo. Ahi! Anche questa ci voleva. La schiena o meglio la zona lombo sacrale, comincia a dolermi. Comincio ad accumulare stanchezza e non posso pretendere. Cammino già da parecchi giorni e il mio sistema muscolare comincia a pretendere il giusto riposo. Arriverà anche questo ma, per il momento, devo tenere duro. Il dolore non è forte ma sicuramente non passerà se non con il riposo e questo lo avrò solo a Kathmandu, quando mi libererò anche dello zaino.

Si pensa ad una festa

Dingboche – Lobuche

Se domani sarà tutto ok, raggiungerò la meta fondamentale del mio trekking: il campo base. Il programma prevede anche la salita del Kala Patthar. Ma un elemento nuovo si aggiunge: BeBe mi dice che a Tengboche, dove esiste un importante monastero, si terrà, nei prossimi giorni una festa buddista molto importante e che richiama gente da tutta la vallata. “Certo è”, aggiunge che, se facciamo il Kala Patthar non riusciamo a partecipare alla festa e viceversa. Cosa fare? Non ci penso molto. “Andiamo alla festa” gli rispondo. Desidero tornare dal mio trekking anche con il ricordo non solo delle vette e dei paesaggi incontrati. Una festa è un’occasione troppo ghiotta per “entrare” in un mondo sconosciuto quale quello nepalese. Una festa religiosa m’incuriosisce anche se del Buddha non conosco nulla e me ne dispiace, ma l’idea della gente, dei colori e dei costumi è troppo stuzzicante per evitarla.

Gokyo – Porthse (3.810 m.)

03 Novembre 2014 Lunedì

Dingboche – Lobuche

Oggi da Gokyo a Porthse e così il trekking viene cambiato

Oggi sarei dovuto partire da Gokyo e salire sul Gokyo Ri ed invece mi ritrovo a ragionare se tornare Porthse

La scoperta

Mi sveglio durante la notte. Purtroppo ogni cosa è venuta a galla. Il mal di testa alla nuca si è spostato verso quella zona nella quale non avrei mai voluto sentirlo: le meningi, come dettomi da uno dei due spagnoli. Non solo, ma è un dolore pulsante e abbastanza forte. Oltre a questo, c’è una sensazione di mal stare, quasi di …. confusione. Sono le quattro e mezza. Cosa fare? Ormai è chiaro sto soffrendo di mal di montagna, anche se privo di quell’affanno di cui tanto mi aveva parlato il dottore.

Il momento della decisione

Devo decidere come muovermi. Con Marina, prima della partenza, avevo deciso come comportarmi: in caso di problemi si ridiscende senza indugi. Devo seguire questa strada? Mi rispondo di si. Non posso dire di avere paura ma posso dire che non voglio correre rischi mettendomi in difficoltà e mettendo in difficoltà la mia guida e creando ansie sciocche a Marina.

Penso che, con questa decisione, sto perdendo un’occasione unica e irripetibile. Non mi sento in colpa. E come potrei, se il mio corpo mi dice che non se la sente di proseguire? Oggi dovrei salire ancora di 400 metri, come potrei essere sereno! In effetti sono in ferie e non sto facendo nè una gara e nemmeno qualcosa che mi è stato imposto. Pensare di essere un vile, un pauroso. Certo ho paura del male! Ma anche il giudizio pesa! Ho parlato a tutti del mio trekking: arriverò al campo base dell’Everest, farò il Chola Pass! Nulla di tutto ciò!

Fingere il problema?

La cosa mi pesa? Certo non conseguirò quanto ipotizzato all’inizio ma, alla fine, mi sono anche detto che era importante non tanto raggiungere una cima o un passo quanto vivere un’esperienza nuova, vivere a contatto con un mondo diverso dal mio. Vivere l’esperienza di camminare per 14 giorni salire ad altitudini inimmaginabili. Ciò sarebbe stato di per se gratificante. Ed ora, nel momento della scelta sono così dubbioso? Quanti contrasti, quante pulsioni. Proseguire sarebbe stato fingere di non avere un problema.

Accettarela realtà

Arrendermi sarebbe stato anche il segno di una maturità e di una umanità che sa riconoscere i propri limiti. Alla fine devo riconoscere ed accettare la mia inesperienza. Quante volte, prima d’ora, ho raggiunto queste altitudini? Quanto volte prima d’ora ho vissuto questa esperienza? Mai, mi rispondo. Non ho mai provato il mal di montagna, mai mi sono avventurato a tali limiti, mai ho accettato una sfida del genere. Quindi è giunto il momento di mettere pace in me e di accettare la realtà della montagna. La realtà di un mondo bellissimo ma dalla fredda e cruda legge. Non puoi essere che umile ed accontentarti dei traguardi raggiunti. Hai respirato l’aria dei 4.000 metri hai visto cieli turchini, acque blue, vette altissime e nevi perenni ora devi decidere ed accettare il tuo limite e il tuo essere umano.

Ormai è deciso

Ormai sono le sei e devo incontrarmi con BeBe. Scendo e lo vedo. “BeBe non sto bene e ho deciso di non proseguire. Ne va del mio accordo con la mia moglie e con me stesso. Non posso permettermi di fare errori e non desidero mettere, chi mi sta vicino, in difficoltà Ti deluderò ma … pazienza”. BeBe mi guarda e mi dice: “ma come?” “Così è caro BeBe quel sordo mal di testa che mi sto portando dietro da giorni si è trasformato in qualcosa di più pesante. Scendiamo BeBe, senza rimpianti”. Intorno a me vedo anche gli spagnoli. Sono vestiti di tutto punto per la salita al Gokyo-Ri. Sono carichi e pronti mentalmente. Io mi sento un pò confuso. “Facciamo colazione” mi dice BeBe quasi a voler prendere tempo. “Va bene” gli rispondo. Sorseggio il mio tea. BeBe mi guarda come per avere una conferma della mia decisione presa nel giro di due orette.

Machermo – Gokyo

“Vuoi proprio scendere?” mi chiede, quasi a volermi dare del tempo per farmi soppesare maggiormente una decisione presa, forse per lui, troppo in fretta. “BeBe”, gli rispondo, “non porti problemi. Ho pensato e riflettuto. Scendiamo! Non mi sento bene le meningi mi pulsano, urino poco e la giornata prevede una ulteriore salita di 400 metri. Come posso vivere questo serenamente?” “Va bene”, mi risponde vedremo di riaggiornare il programma con calma alla prima occasione. Finisco colazione e paghiamo il dovuto. Mi carico lo zaino e prendiamo la via del ritorno. Rivedo i meravigliosi e silenti laghi, ricalpesto lo stesso sentiero di ieri, respiro la stessa polvere. Mi giro e vedo, in lontananza il sentiero che avrei dovuto prendere per raggiungere il Gokyo-Ri. Che peccato! Le testa mi duole ogni piccola salita diventa un pulsare alle meningi insopportabile.

Si comincia a ragionare sul da farsi

Mi fermo spesso e con me anche BeBe e Samir. Quanta gente sta salendo ed io scendo! Scendo senza portarmi con me il Chola-Pas senza quell’asperità che fa la differenza tra un trekking portato a compimento e un accontentarsi un qualcosa d’incompiuto. Mi ripeto: peccato! “Cosa facciamo?” Chiedo a BeBe. Per fortuna sono solo e non condiziono nessuno. Pensa se fossi stato con John! Lo avrei condizionato a tornare indietro con me, senza dargli l’opportunità di completare il trekking. Il primo pensiero è tornare a Lukla al punto di partenza. Ma cosa faccio là, in attesa del volo per kathmandu? Forse con BeBe possiamo costruire altre strade. Adesso mi sono fatto un’esperienza. So cos’è il mal di montagna e so a quale altitudine si manifesta. È importante per capire cosa fare in futuro e come gestire la cosa.

La proposta

“Allora BeBe” cosa proponi? Gli chiedo, visto che starmene a Lukla, in attesa del volo di rientro non mi piace affatto. “Senti!” Mi risponde. Scendiamo il mal di montagna si cura solo scendendo. Una volta raggiunto il tuo livello di acclimatazione possiamo, successivamente, provare a risalire. Certo è che farai uno sforzo doppio, nel senso che tornando indietro cancellerai tutto quanto fatto sino ad ora, mettendo in conto la successiva risalita. Praticamente la proposta è questa. Scendiamo fino al bivio che, preso a sinistra, mi ha portato fin qui ma che, a destra, porta comunque al campo base.

Ridisegnamo il trekking. La nuova meta: Gokyo – Porthse

In altre parole, evitando il Chola Pass, siamo costretti ad aggirare la vallata raggiungendo comunque lo stesso obiettivo: il campo base dell’Everest. La proposta mi piace. Adesso mi sento più capace e consapevole. Accetto! Partiamo da Gokyo e scendiamo velocemente fin dopo Dole, passiamo la foresta di rododendri. Passiamo un e ponte saliamo fino a Porthse (3.810 m.). Ormai è l’imbrunire abbiamo coperto un dislivello di circa 1.000 metri e fatto circa 25 chilometri. Sono distrutto e stanchissimo ma il mal di testa è scomparso. Ho ripreso a urinare abbondantemente. Sono felice anzi velocissimo! Ora ho capito qualcosa di me. “Senti!” Riprende BeBe “se fossi in te escluderei anche il Campo Base.

Si prendono le decisioni

Nel programma è previsto di raggiungere il Kala Patthar (5.540 m.). Da quel punto è possibile vedere ogni cosa e meglio. È un punto strategico dal quale l’Everest si vede benissimo cosa impossibile da farsi dal campo base”. “Non so!” gli rispondo. Certo è che dire di raggiungere il Kala Patthar fa un effetto diverso che dire di aver raggiunto il campo base dell’Everest anche se, insignificante come luogo panoramico, è pur sempre una meta che scrive e parla dell’Everest (8.848m.) la cima più alta del pianeta. Cedo a questa banalità e dico a BeBe: “No!. Se dobbiamo risalire lo facciamo per arrivare al campo base dell’Everest. Se poi ho fiato e gambe saliremo anche sul Kala Patthar (5.540 m.)”. “Va bene” mi risponde. A questo punto sono tranquillo. Sono già arrivato quasi a 5.000 m e il ritornarci dopo pochi giorni anche con più chilometri sulle gambe non dovrebbe essere un problema visto che ormai so cosa potrebbe succedere.

Solo ora ricordo che tra le medicine portate da casa ho anche il diuretico. Mi mangio le dita pensando che avrei potuto usarle anche a Gokyo. Ma forse no! È meglio che le cose si siano messe così. Adesso che ho risolto tutti i miei problemi posso mettermi a raccontare qualcosa che ogni giorno ho vissuto.

I lodges

Machermo – Gokyo

La stanza principale dei Lodge. Sala da pranzo? Sala di ritrovo e conversazione? Meglio dire: tutto questo!. Sono tutte più o meno uguali in quanto in mezzo troneggia sempre la stufa. Su un lato si trova il “banco” dove, tanto per capirci, nelle nostre osterie si serve da bere e si fa di conto. Bene, più o meno la stessa cosa qui.È il luogo dove arrivano le guide con i menù, dove si ordina e si paga. È il luogo dove, usando una porticina, si accede alla cucina e dal quale arrivano tutte le vivande. Lungo le altre tre pareti si trovano le panchine dove sedersi e i tavoli che sembrano più dei grandi tavolini che dei tavoli come li intendiamo noi. Tali comodini si trovano lungo i tre lati dello stanzone. Per sedersi delle lunghe panche ricoperte da pesanti plaid. Di norma si mangia incrociando le gambe e scalzi. È abitudine togliersi le scarpe e massaggiarsi i piedi mentre si parla. Per mangiare si usano indistintamente le posate o direttamente e senza problemi le mani.

Usi e costumi

Visto che sto parlando di usi, aggiungo che non esistono fazzoletti per pulirsi il naso. Il sistema è molto naturale e primitivo: le dita. Al mattino si provvede con un lavaggio della zona attraverso manovre che portano alla chiusura di una narice con un pollice e al soffiare con forza l’aria nell’altra narice e tenendo la bocca chiusa. Tutto si svolge con assoluta tranquillità e in perfetta confidenza. Anche lo sputo rientra nella normalità dei comportamenti tenuti normalmente in ogni ove e senza alcun senso di vergogna e opportunità. Ci si lava al mattino. Un secchiello raccoglie l’acqua che viene fatta scivolare da dietro la testa. Con una mano si tiene il secchiello, con l’altra ci si deterge il volto. Per i denti una veloce spazzolata aiuta a mantenerli d’un bianco smagliante.

Ritornando alla stanza concludo dicendo che alle pareti troviamo appese fotografie di parenti, immagini sacre e quella quasi sempre presente del Dalai Lama. La stufa, come già dicevo, è sempre al centro della stanza. Dopo la cena è usanza chiacchierare intorno ad essa. Si chiacchiera massaggiandosi i piedi e bevendo tea e latte. Ogni tanto qualcuno si alza entra in cucina e se ne esce con un cesto. Dentro c’è dello sterco di Yak essiccato al sole. Si apre la porticina della stufa e si riempie. Dopo ci si pulisce le mani sui pantaloni o sulla gonna. Se il fuoco tarda ad arrivare si unge il tutto con del cherosene. Dopo aver cenato raggiungo la camera. Mi lavo con le manopole, entro nel sacco a pelo, chiudo la torcia e…… buona notte.