Gokyo – Porthse (3.810 m.)

03 Novembre 2014 Lunedì

Dingboche – Lobuche

Oggi da Gokyo a Porthse e così il trekking viene cambiato

Oggi sarei dovuto partire da Gokyo e salire sul Gokyo Ri ed invece mi ritrovo a ragionare se tornare Porthse

La scoperta

Mi sveglio durante la notte. Purtroppo ogni cosa è venuta a galla. Il mal di testa alla nuca si è spostato verso quella zona nella quale non avrei mai voluto sentirlo: le meningi, come dettomi da uno dei due spagnoli. Non solo, ma è un dolore pulsante e abbastanza forte. Oltre a questo, c’è una sensazione di mal stare, quasi di …. confusione. Sono le quattro e mezza. Cosa fare? Ormai è chiaro sto soffrendo di mal di montagna, anche se privo di quell’affanno di cui tanto mi aveva parlato il dottore.

Il momento della decisione

Devo decidere come muovermi. Con Marina, prima della partenza, avevo deciso come comportarmi: in caso di problemi si ridiscende senza indugi. Devo seguire questa strada? Mi rispondo di si. Non posso dire di avere paura ma posso dire che non voglio correre rischi mettendomi in difficoltà e mettendo in difficoltà la mia guida e creando ansie sciocche a Marina.

Penso che, con questa decisione, sto perdendo un’occasione unica e irripetibile. Non mi sento in colpa. E come potrei, se il mio corpo mi dice che non se la sente di proseguire? Oggi dovrei salire ancora di 400 metri, come potrei essere sereno! In effetti sono in ferie e non sto facendo nè una gara e nemmeno qualcosa che mi è stato imposto. Pensare di essere un vile, un pauroso. Certo ho paura del male! Ma anche il giudizio pesa! Ho parlato a tutti del mio trekking: arriverò al campo base dell’Everest, farò il Chola Pass! Nulla di tutto ciò!

Fingere il problema?

La cosa mi pesa? Certo non conseguirò quanto ipotizzato all’inizio ma, alla fine, mi sono anche detto che era importante non tanto raggiungere una cima o un passo quanto vivere un’esperienza nuova, vivere a contatto con un mondo diverso dal mio. Vivere l’esperienza di camminare per 14 giorni salire ad altitudini inimmaginabili. Ciò sarebbe stato di per se gratificante. Ed ora, nel momento della scelta sono così dubbioso? Quanti contrasti, quante pulsioni. Proseguire sarebbe stato fingere di non avere un problema.

Accettarela realtà

Arrendermi sarebbe stato anche il segno di una maturità e di una umanità che sa riconoscere i propri limiti. Alla fine devo riconoscere ed accettare la mia inesperienza. Quante volte, prima d’ora, ho raggiunto queste altitudini? Quanto volte prima d’ora ho vissuto questa esperienza? Mai, mi rispondo. Non ho mai provato il mal di montagna, mai mi sono avventurato a tali limiti, mai ho accettato una sfida del genere. Quindi è giunto il momento di mettere pace in me e di accettare la realtà della montagna. La realtà di un mondo bellissimo ma dalla fredda e cruda legge. Non puoi essere che umile ed accontentarti dei traguardi raggiunti. Hai respirato l’aria dei 4.000 metri hai visto cieli turchini, acque blue, vette altissime e nevi perenni ora devi decidere ed accettare il tuo limite e il tuo essere umano.

Ormai è deciso

Ormai sono le sei e devo incontrarmi con BeBe. Scendo e lo vedo. “BeBe non sto bene e ho deciso di non proseguire. Ne va del mio accordo con la mia moglie e con me stesso. Non posso permettermi di fare errori e non desidero mettere, chi mi sta vicino, in difficoltà Ti deluderò ma … pazienza”. BeBe mi guarda e mi dice: “ma come?” “Così è caro BeBe quel sordo mal di testa che mi sto portando dietro da giorni si è trasformato in qualcosa di più pesante. Scendiamo BeBe, senza rimpianti”. Intorno a me vedo anche gli spagnoli. Sono vestiti di tutto punto per la salita al Gokyo-Ri. Sono carichi e pronti mentalmente. Io mi sento un pò confuso. “Facciamo colazione” mi dice BeBe quasi a voler prendere tempo. “Va bene” gli rispondo. Sorseggio il mio tea. BeBe mi guarda come per avere una conferma della mia decisione presa nel giro di due orette.

Machermo – Gokyo

“Vuoi proprio scendere?” mi chiede, quasi a volermi dare del tempo per farmi soppesare maggiormente una decisione presa, forse per lui, troppo in fretta. “BeBe”, gli rispondo, “non porti problemi. Ho pensato e riflettuto. Scendiamo! Non mi sento bene le meningi mi pulsano, urino poco e la giornata prevede una ulteriore salita di 400 metri. Come posso vivere questo serenamente?” “Va bene”, mi risponde vedremo di riaggiornare il programma con calma alla prima occasione. Finisco colazione e paghiamo il dovuto. Mi carico lo zaino e prendiamo la via del ritorno. Rivedo i meravigliosi e silenti laghi, ricalpesto lo stesso sentiero di ieri, respiro la stessa polvere. Mi giro e vedo, in lontananza il sentiero che avrei dovuto prendere per raggiungere il Gokyo-Ri. Che peccato! Le testa mi duole ogni piccola salita diventa un pulsare alle meningi insopportabile.

Si comincia a ragionare sul da farsi

Mi fermo spesso e con me anche BeBe e Samir. Quanta gente sta salendo ed io scendo! Scendo senza portarmi con me il Chola-Pas senza quell’asperità che fa la differenza tra un trekking portato a compimento e un accontentarsi un qualcosa d’incompiuto. Mi ripeto: peccato! “Cosa facciamo?” Chiedo a BeBe. Per fortuna sono solo e non condiziono nessuno. Pensa se fossi stato con John! Lo avrei condizionato a tornare indietro con me, senza dargli l’opportunità di completare il trekking. Il primo pensiero è tornare a Lukla al punto di partenza. Ma cosa faccio là, in attesa del volo per kathmandu? Forse con BeBe possiamo costruire altre strade. Adesso mi sono fatto un’esperienza. So cos’è il mal di montagna e so a quale altitudine si manifesta. È importante per capire cosa fare in futuro e come gestire la cosa.

La proposta

“Allora BeBe” cosa proponi? Gli chiedo, visto che starmene a Lukla, in attesa del volo di rientro non mi piace affatto. “Senti!” Mi risponde. Scendiamo il mal di montagna si cura solo scendendo. Una volta raggiunto il tuo livello di acclimatazione possiamo, successivamente, provare a risalire. Certo è che farai uno sforzo doppio, nel senso che tornando indietro cancellerai tutto quanto fatto sino ad ora, mettendo in conto la successiva risalita. Praticamente la proposta è questa. Scendiamo fino al bivio che, preso a sinistra, mi ha portato fin qui ma che, a destra, porta comunque al campo base.

Ridisegnamo il trekking. La nuova meta: Gokyo – Porthse

In altre parole, evitando il Chola Pass, siamo costretti ad aggirare la vallata raggiungendo comunque lo stesso obiettivo: il campo base dell’Everest. La proposta mi piace. Adesso mi sento più capace e consapevole. Accetto! Partiamo da Gokyo e scendiamo velocemente fin dopo Dole, passiamo la foresta di rododendri. Passiamo un e ponte saliamo fino a Porthse (3.810 m.). Ormai è l’imbrunire abbiamo coperto un dislivello di circa 1.000 metri e fatto circa 25 chilometri. Sono distrutto e stanchissimo ma il mal di testa è scomparso. Ho ripreso a urinare abbondantemente. Sono felice anzi velocissimo! Ora ho capito qualcosa di me. “Senti!” Riprende BeBe “se fossi in te escluderei anche il Campo Base.

Si prendono le decisioni

Nel programma è previsto di raggiungere il Kala Patthar (5.540 m.). Da quel punto è possibile vedere ogni cosa e meglio. È un punto strategico dal quale l’Everest si vede benissimo cosa impossibile da farsi dal campo base”. “Non so!” gli rispondo. Certo è che dire di raggiungere il Kala Patthar fa un effetto diverso che dire di aver raggiunto il campo base dell’Everest anche se, insignificante come luogo panoramico, è pur sempre una meta che scrive e parla dell’Everest (8.848m.) la cima più alta del pianeta. Cedo a questa banalità e dico a BeBe: “No!. Se dobbiamo risalire lo facciamo per arrivare al campo base dell’Everest. Se poi ho fiato e gambe saliremo anche sul Kala Patthar (5.540 m.)”. “Va bene” mi risponde. A questo punto sono tranquillo. Sono già arrivato quasi a 5.000 m e il ritornarci dopo pochi giorni anche con più chilometri sulle gambe non dovrebbe essere un problema visto che ormai so cosa potrebbe succedere.

Solo ora ricordo che tra le medicine portate da casa ho anche il diuretico. Mi mangio le dita pensando che avrei potuto usarle anche a Gokyo. Ma forse no! È meglio che le cose si siano messe così. Adesso che ho risolto tutti i miei problemi posso mettermi a raccontare qualcosa che ogni giorno ho vissuto.

I lodges

Machermo – Gokyo

La stanza principale dei Lodge. Sala da pranzo? Sala di ritrovo e conversazione? Meglio dire: tutto questo!. Sono tutte più o meno uguali in quanto in mezzo troneggia sempre la stufa. Su un lato si trova il “banco” dove, tanto per capirci, nelle nostre osterie si serve da bere e si fa di conto. Bene, più o meno la stessa cosa qui.È il luogo dove arrivano le guide con i menù, dove si ordina e si paga. È il luogo dove, usando una porticina, si accede alla cucina e dal quale arrivano tutte le vivande. Lungo le altre tre pareti si trovano le panchine dove sedersi e i tavoli che sembrano più dei grandi tavolini che dei tavoli come li intendiamo noi. Tali comodini si trovano lungo i tre lati dello stanzone. Per sedersi delle lunghe panche ricoperte da pesanti plaid. Di norma si mangia incrociando le gambe e scalzi. È abitudine togliersi le scarpe e massaggiarsi i piedi mentre si parla. Per mangiare si usano indistintamente le posate o direttamente e senza problemi le mani.

Usi e costumi

Visto che sto parlando di usi, aggiungo che non esistono fazzoletti per pulirsi il naso. Il sistema è molto naturale e primitivo: le dita. Al mattino si provvede con un lavaggio della zona attraverso manovre che portano alla chiusura di una narice con un pollice e al soffiare con forza l’aria nell’altra narice e tenendo la bocca chiusa. Tutto si svolge con assoluta tranquillità e in perfetta confidenza. Anche lo sputo rientra nella normalità dei comportamenti tenuti normalmente in ogni ove e senza alcun senso di vergogna e opportunità. Ci si lava al mattino. Un secchiello raccoglie l’acqua che viene fatta scivolare da dietro la testa. Con una mano si tiene il secchiello, con l’altra ci si deterge il volto. Per i denti una veloce spazzolata aiuta a mantenerli d’un bianco smagliante.

Ritornando alla stanza concludo dicendo che alle pareti troviamo appese fotografie di parenti, immagini sacre e quella quasi sempre presente del Dalai Lama. La stufa, come già dicevo, è sempre al centro della stanza. Dopo la cena è usanza chiacchierare intorno ad essa. Si chiacchiera massaggiandosi i piedi e bevendo tea e latte. Ogni tanto qualcuno si alza entra in cucina e se ne esce con un cesto. Dentro c’è dello sterco di Yak essiccato al sole. Si apre la porticina della stufa e si riempie. Dopo ci si pulisce le mani sui pantaloni o sulla gonna. Se il fuoco tarda ad arrivare si unge il tutto con del cherosene. Dopo aver cenato raggiungo la camera. Mi lavo con le manopole, entro nel sacco a pelo, chiudo la torcia e…… buona notte.

Il mal di montagna

Il mal di montagna è una condizione patologica causata dal mancato adattamento dell’organismo alle grandi altitudini, in particolare dovuta alla più bassa pressione atmosferica che determina una ridotta presenza di ossigeno nell’organismo generando uno stato di ipossia.
Generalmente si verifica al di sopra dei 2.500 metri s.l.m.. Si tratta di una condizione pericolosa che, nei casi più gravi, se non tempestivamente e opportunamente trattata può anche essere letale.

L’ipossia

La suscettibilità al mal di montagna è diversa da soggetto a soggetto. Per alcuni soggetti i sintomi iniziano a comparire al di sopra dei 1500 m s.l.m.. Diete ad alto contenuto di carboidrati possono fornire un sollievo sintomatologico. I carboidrati, a differenza dei lipidi, possono essere metabolizzati in condizioni muscolari anaerobiche e consentono di mantenere un adeguato livello di glicemia, indispensabile per l’attività del sistema nervoso centrale. I sintomi sotto riportati sono riconducibili agli effetti neurologici delle condizioni di ipossia e ipoglicemia. L’ipossia è almeno parzialmente risolvibile tramite un adeguato periodo di acclimatamento. La velocità di ascensione, l’altitudine raggiunta, l’entità dell’attività fisica ad alta quota e la suscettibilità individuale sono tutti fattori che contribuiscono all’incidenza e alla severità del mal di montagna

I sintomi

La cefalea è solitamente il primo sintomo del mal di montagna.
Quando si associa a uno dei seguenti sintomi:

  1. Anoressia (perdita di appetito), nausea o vomito
  2. Fatica o astenia
  3. Vertigini o senso di stordimento
  4. Insonnia
  5. Irritabilità

deve subito indurre a sospettare la diagnosi.

L’edema polmonare da alta quota (High-altitude pulmonary edema, HAPE) e l’edema celebrale sono i più minacciosi tra questi sintomi, mentre emorragia retinale ed edemi periferici sono forme più lievi del malessere. I primi sintomi del mal di montagna comprendono fiacchezza, malessere generico e debolezza, in particolare durante gli sforzi fisici. Sintomi più severi sono cefalea, insonnia, battito cardiaco costantemente accelerato, nausea e talvolta vomito, in particolare nei bambini. Sintomi estremi comprendono confusione mentale, psicosi, allucinazioni, sintomi derivanti dall’edema polmonare (fluidi nei polmoni) quali tosse persistente, e infine raptus, coma e morte.

L’edema

I sintomi più seri di mal di montagna sono dovuti all’edema (accumulo di fluidi nei tessuti corporei). A grandi altitudini, gli esseri umani possono contrarre edema polmonare da alta quota (HAPE), o edema cerebrale da alta quota (HACE). Queste sindromi sono potenzialmente fatali. La causa fisiologica degli edemi indotti dall’alta quota non è stata stabilita definitivamente. Per chi soffre di HAPE o HACE, il Dexametadone può fornire sollievo temporaneo che consente di poter scendere di quota con le proprie forze. L’HAPE si manifesta all’incirca nel 2% delle persone che si adattano ad altitudini di circa 3000 m o più. Può minacciare la vita. I sintomi comprendono affaticamento, dispnea, cefalea, nausea, tosse secca senza flemma, edema polmonare, ritenzione di fluidi nei reni e rantoli.

La discesa ad altitudini inferiori allevia i sintomi dell’HAPE. L’HACE è una condizione rischiosa per la vita che può portare al coma e alla morte. Si verifica all’incirca nell’1% delle persone che si adattano ad altitudini di circa 2700 m o più. I sintomi comprendono cefalea, affaticamento, indebolimento della vista, disfunzioni alla vescica e all’intestino, perdita di coordinazione, paralisi laterale, confusione e riflessi rallentati. La discesa ad altitudini più basse può salvare la vita a chi viene colpito dall’HACE.

L’acclimatamento all’altitudine è uno stato di adattamento a livelli inferiori di ossigeno ad alte quote, raggiungibile attraverso un processo di adattamento, detto acclimatazione, allo scopo di evitare il mal di montagna. Durante questo periodo la mancanza di ossigeno nel sangue induce principalmente la produzione di un ormone, l’Eritoproteina (EPO), il quale promuove lo sviluppo di nuovi globuli rossi, aumentando pertanto la capacità dell’organismo di prelevare ossigeno dall’aria.

È un problema di pressione

In alta montagna, l’ossigeno presente nella miscela gassosa che compone l’aria che respiriamo è presente nella stessa percentuale di quella al livello del mare. Cambia però la pressione parziale che si riduce notevolmente con l’aumentare della quota e diminuisce dunque la quantità di ossigeno per unità di volume. È questo il motivo per il quale al nostro organismo arriva un apporto di ossigeno insufficiente.

Una volta superati i 3.000 metri la gran parte degli scalatori e degli escursionisti d’alta quota segue la “regola aurea” – cammina/scala in alto, dormi in basso. Per gli scalatori d’alta quota, il modo per acclimatarsi consiste nello stare per alcuni giorni al campo base, arrampicarsi (lentamente) fino a un campo più alto, starvi inizialmente per una notte, quindi tornare al campo base. Questo procedimento viene ripetuto alcune volte, aumentando ogni volta il tempo trascorso a quota più elevata, così da abituare il corpo ai livelli di ossigeno. Una volta che lo scalatore si è abituato a tale altitudine, il processo viene ripetuto con un campo posto a quota più alta.

La regola generale è quella di non salire più di 300 metri al giorno per dormire. Ciò significa che si può scalare passando da 3000 a 4500 metri in un giorno, ma si deve discendere fino a non più di 3300 per dormire. Questo processo non può essere accelerato, e ciò spiega perché gli scalatori devono passare giorni (o anche settimane a volte) per acclimatarsi, prima di tentare la scalata ad un’alta vetta.

I possibile rimedi

L’acetazolamide può aiutare alcune persone nel velocizzare il processo di acclimatamento e può trattare casi lievi di mal di montagna. Anche bere molta acqua aiuta nell’acclimatamento, per sostituire i fluidi persi attraverso la respirazione più pesante. È talvolta possibile controllare un lieve mal di montagna prendendo volontariamente dieci o dodici ampi e rapidi respiri ogni cinque minuti. Se ciò viene fatto ripetutamente, si può espellere troppa anidride carbonica (iperventilazione e conseguente alcolosi respiratoria) provocando un formicolio alle estremità del corpo. Altri trattamenti comprendono steroidi iniettabili per ridurre l’edema polmonare, bombole d’aria compressa per aumentare l’apporto di ossigeno e alleviare i sintomi, ma la misura ideale da intraprendere nei confronti di persone colpite dal mal di montagna è la discesa o il trasporto a valle.

L’unica vera cura

L’unica vera cura quindi, una volta che compaiono i sintomi, è quella di portare il malato ad altitudini più basse. Per casi seri di mal di montagna, può essere usata una sacca di Gamow per ridurre l’altitudine effettiva fino a 1500 metri in meno. Una sacca di Gamow è una sacca portatile in plastica, gonfiabile con una pompa.

Fonte Wikipedia