L’autostrada trans-himalayana

Nel 1999 il comitato locale per lo sviluppo dei villaggi del Mustang approvò la costruzione dell’Autostrada trans-himalayana una strada dal Kore sul confine tibetano a Lo Manthang che consentisse agli autocarri cinesi di raggiungere la capitale del Mustang per portare rifornimenti di riso, legno, cemento, kerosene, materiale elettrico e trattori.

Una strada attualmente non asfaltata prosegue a sud di Lo Manthang fino a collegarsi con la nuova strada percorsa solo dalle Jeep che va da Beni a Jomsom.
È da poco tempo aperta al traffico automobilistico l’arteria che collega Kathmandu a Lo Manthang evento inimmaginabile fino a pochi anni fa. Tale evento senza dubbi avrà delle profonde conseguenze sul tessuto sociale e culturale della regione.

I dintorni di Lo Manthang

La valle a est di Lo Manthang comprende Chosar, il sito dei gompa Garphu e di Nyphu, e alcune affascinanti grotte/abitazioni.
In questa valle passa la più importante via commerciale per Lhasa, secondo Tucci “percorsa da secoli da pellegrini e apostoli, banditi e invasori”, come dimostrano le rovine di numerose fortezze disseminate lungo il percorso.

Le grotte abitazioni

Le grotte/abitazioni sono un compendio di circa 10.000 caverne artificiali scavate ai lati delle valli nel distretto di Mustang in Nepal. Diversi gruppi di archeologi e ricercatori hanno esplorato queste grotte e hanno trovato corpi umani e scheletri parzialmente mummificati che hanno almeno 2000-3000 anni. Le esplorazioni di queste grotte da parte degli archeologi hanno anche portato alla scoperta di preziosi dipinti buddisti, sculture, manoscritti e numerosi manufatti appartenenti al XII-XIV secolo. Le grotte si trovano sulle ripide pareti della valle vicino al fiume Kali Gandaki nell’Alto Mustang. I gruppi di ricerca hanno continuato a indagare su queste grotte, ma nessuno ha ancora capito chi ha costruito le grotte e perché sono state costruite. Il sito è attualmente elencato come sito provvisorio dall’UNESCO dal 1996.

I corpi mummificati

A metà degli anni ‘90, gli archeologi del Nepal e dell’Università di Colonia iniziarono a esplorare le grotte e trovarono diverse decine di corpi umani parzialmente mummificati, tutti di almeno 2000 anni.
Nel 2010, un team di alpinisti e archeologi ha scoperto ventisette resti umani in due grotte più grandi vicino a Samdzong. Gli scheletri relativamente intatti, che risalgono dal terzo all’ottavo secolo, prima che il buddhismo arrivasse nel Mustang, avevano dei segni su certe ossa. Gli studiosi ritengono che questo rituale di sepoltura potrebbe essere stato collegato alla pratica bon–buddista della sepoltura celeste (Bon, scritto anche Bön, è una religione tibetana, che si identifica come distinta dal buddhismo tibetano, sebbene condivida gli stessi insegnamenti e terminologia generali).

Un macabro rituale

Ancora oggi, quando muore un cittadino nel Mustang, vige la consuetudine che il suo corpo venga tagliato in piccoli pezzi, ossa incluse, per essere rapidamente rapito dagli avvoltoi.
Nel 2007, esploratori di Stati Uniti, Italia e Nepal hanno scoperto antiche arti decorative buddiste e dipinti, manoscritti e ceramiche nelle grotte vicino a Lo Manthang, risalenti al XIII secolo. Una seconda spedizione nel 2008 ha scoperto diversi scheletri umani di 600 anni fa e ha recuperato risme di preziosi manoscritti, alcuni con piccoli dipinti noti come luminarie, che contengono un mix di scritti del buddhismo e di Bon.

Tratto da: Trekking in Nepal – Lonely Planet

Feste e Manifestazioni

Il padre demone

Numerose sono le feste e le manifestazione nel Mustang. Il festival estivo di Tiji (Tence) alla fine del terzo mese tibetano (verso maggio) è un rituale di tre giorni che rievoca la battaglia di Dorje Jono contro il padre demone per salvare il Mustang dall’essere sommerso dalla acque.
I momenti cruciali della festa consistono nello spegnimento di un gigantesco tongdrol di Guru Rinpoche e nelle numerose e colorate danze chaam.

Il festival di Yartung

I monaci creano un’immagine del demone con grani d’orzo, burro e peli di yak, che poi viene pugnalata e bruciata, esorcizzando così gli spiriti maligni della città. Una salva di colpi di fucile conclude le celebrazioni e segna la fine dell’inverno secco e l’inizio della più umida stagione dedicata alla coltivazione.
Il Mustang celebra anche il festival di Yartung alla fine di agosto con corse di cavalli, processioni religiose e fiumi di Chhang (birra).

Popolazione e Cultura

La popolazione del “Lo”

I 7000 abitanti dell’alto Mustang chiamano loro stessi Loba. A voler essere più precisi la parola dovrebbe pronunciarsi “lopa” che significa “gente del Lo”, così come sherpa sta per “gente dell’est” e Khampa “gente del Kham”.
La popolazione del Lo, forse a causa della dialettica locale, pronuncia la parola sostituendo il suono della “p”, usato dagli sherpa e khampa, con quello della “b”. Rispetteremo l’uso locale adottando la forma”loba” benché ciò contrasti con la maggior parte dei testi di antropologia.

La cinta muraria e il palazzo

In questa zona, per la costruzione di case e templi viene impiegata la terra battuta oppure mattoni di fango asciugati al sole su fondamenta di pietra. Con questo metodo sono state realizzate straordinarie opere d’architettura, come la cinta muraria e il palazzo di cinque piani di Lo Manthang. Si dice che un tempo il Lo fosse coperto da vaste foreste, ma ora il legname per l’edilizia proviene totalmente da Jomsom oppure viene ricavato dai pioppi coltivati con cura in ogni villaggio.

L’agricoltura è la base

Negli anni ‘90 del XX secolo la maggior parte del legno, compreso quello utilizzato per la ristrutturazione del gompa di Thubchen, fu importato dal Tibet. È degna di nota la notizia che le fondamenta di numerosi edifici sono costituite da massi tondeggianti e ciottoli, un’ulteriore indicazione che una volta il Mustang era sommerso dalle acque.
La popolazione raduna in mandrie gli yak e alleva capre e pecore. La principale fonte di sussistenza deriva dall’agricoltura e la maggior parte delle famiglie coltiva campi di grano saraceno, orzo, frumento e senape.

La stagione della semina

Le rigide condizioni climatiche permettono la coltivazione di un solo raccolto l’anno ad eccezione dei villaggi al di sotto di Chhuksang dove è possibile ottenere due raccolti.
La stagione della semina è in aprile e maggio, e durante il mese di settembre l’intera regione è occupata nella raccolta.
Molti residenti lasciano il Mustang tra novembre e marzo per andare a vendere maglioni di lana nel Nepal meridionale o in India, o per cercare un lavoro a Kathmandu. In generale la popolazione del Mustang è in calo.

Fonte: Lonely Planet

La Religione

Nonostante nel Mustang ci siano i gompa delle sette Gelug e Nyingma, la principale forma di buddhismo tibetano praticato nella regione è quella della setta di Sakya.
Il lama Ngorchen Kunga Sangpo introdusse la tradizione di sakya a Lo durante tre visite compiute tra il 1427 e il 1447. Egli era il capo della scuola ngor del buddhismo sakya e questa è ancor oggi la tradizione seguita nel Mustang.

La scuola di sakya è più socievole, di vedute più aperte e meno legata alla metafisica rispetto alle scuole nyingma e gelug.
I seguaci della setta di sakya usano dipingere i loro templi con strisce grige, bianche e gialle; si tratta di un motivo diffuso in tutta la regione, assieme all’ocra e al bianco dei Chorten e al rosso delle pareti dei gompa.

La Storia

Una storia antica e complessa

La storia del Mustang è antica, ricca e complessa, tanto che la regione risulta essere una delle più interessanti di tutto il Nepal. Le vicende più remote del Lo sono avvolte nella leggenda, nel mito e nel mistero. Anche se non è ancora stato provato, alcuni studiosi, tra cui l’italiano Giuseppe Tucci, sostengono che le grotte sparse per tutto il Mustang risalgono a migliaia di anni fa. Per secoli il punto di forza del successo economico della regione fu lo scambio transfrontaliero del sale e della lana tibetani. In cambio del grano e delle spezie nepalesi trasportati lungo il Kali Gandaki dagli alti passi del Kore La.

La storia racconta che le prime testimonianze certe di eventi che ebbero luogo nel Lo risalgono all’ottavo secolo. L’Alto Mustang apparteneva un tempo al Ngari (Tibet occidentale), un insieme approssimativo di domini feudali. Gran parte del Ngari, all’incirca l’attuale Nepal occidentale fece parte dell’impero dei Malla.

Si fonda il regno

È opinione diffusa che sia stato Ame Pal (A-ma-dpal in tibetano) a fondare il regno di Lo nel 1380; da lui discende, attraverso, 25 generazioni, la stirpe dell’attuale raja, del Mustang, Jigme Palbar Bista. Ame Pal, o forse suo padre, conquistò una larga parte del territorio dell’alto Kali Gandaki. Fu il promotore dello sviluppo della città di Lo Manthang e di molti gompa (monasteri buddhisti tibetani) sparsi in tutta la regione.

La decadenza

A ovest, l’impero dei Malla subì un processo di decadenza e si frantumò in numerosi piccoli stati collinari. A partire dal XVIII sec., Jumla consolidò e riaffermò il suo potere. Il suo scopo era di trasformare il loro regno in un centro di scambi commerciali. Desiderava impadronirsi delle merci tibetane, i re di Jumla volsero la loro attenzione a est; alla metà del XVIII secolo essi assunsero il controllo del Lo, riscuotendone un tributo annuale.

Le armate di Gorkha, al seguito di Prithvi Narayan Shali, in verità non occuparono mai il Lo; esse invece riconobbero le prerogative del raja del Mustang. Benché il Mustang fosse diventato parte del Nepal, il raja mantenne il proprio titolo e allo stesso modo il Lo conservò una certa autonomia. Intorno al 1850 il raja portò avanti trattative di pace tra il Nepal e la Cina, che gli valsero il cappello cerimoniale con le tre piume donatogli dal Dalai Lama, dall’imperatore del Manchu e dal re del Nepal.

Il Lo rimase un principato indipendente fino al 1951. Dopo la reggenza del Rana, quando il re Tribhuvan ristabilì l’autorità della monarchia Shah in Nepal il 15 febbraio 1951, il Lo venne strettamente unito al Nepal. Al raja fu concesso il grado di colonnello onorario dell’esercito nepalese.

La Cina invade il Tibet

Negli anni 60 dopo la fuga del Dalai Lama in India e l’occupazione da parte dell’esercito cinese del Tibet, il Mustang si trasformò in una base organizzativa per atti di guerriglia contro i cinesi per opera dei khampa, i più terribili guerriglieri tibetani, spalleggiati dalla CIA. Al culmine della lotta almeno 6000 khampa stanziavano nel Mustang e nelle vicine zone di confine. All’inizio degli anni ‘70, quando il segretario di stato americano Kissinger e il presidente Nixon avviarono rapporti migliori con la Cina, la CIA cessò di sostenerli. Il governo del Nepal fu indotto a prendere provvedimenti contro i guerriglieri e, grazie ai contrasti interni alla leadership dei khampa, a un po’ d’astuzia e al messaggio registrato che il Dalai Lama rivolse ai suoi connazionali affinché deponessero le armi, si riuscì a disperdere la resistenza senza far intervenire in campo i 10.000 soldati nepalesi già stanziati nella zona.

La Geografia

Controversie con la Cina

Il Mustang è stato descritto come un’appendice a forma di pollice che si protende dal Nepal all’interno del Tibet. Tuttavia esso appare come una piccola protuberanza lungo il confine settentrionale del Nepal; ciò non è dovuto a una descrizione imprecisa da parte dei primi visitatori: il fatto è che è cambiata la carta politica della regione. Nel 1960 ci fu una controversia tra Nepal e Cina sull’appartenenza dell’Everest che portò a una serie di negoziati e al trattato sulla frontiera sino nepalese dal 1963, in base alla quale venne del tutto ridisegnata la geografia della frontiera del Nepal. Il paese guadagnò una notevole fetta di territori a est e a ovest dei vecchi confini del Mustang così che la sua propaggine all’interno del Tibet divenne sempre meno pronunciata. A complicare la situazione, gran parte delle carte geografiche vennero aggiornate solo intorno al 1985.

Paesaggi desolati

Il trekking che raggiunge il Lo attraversa un paesaggio desolato e privo di vegetazione; nel pomeriggio la regione è abitualmente spazzata da forti venti che generalmente calano di notte. Poiché l’Himalaya protegge con la sua mole la regione dalla pioggia, nel Lo piove molto meno che nel resto del Nepal. Durante il monsone il cielo è nuvoloso e si ha qualche debole precipitazione; in inverno si registrano nevicate che a volte raggiungono i 40 cm di neve.

Nello stesso Lo la campagna è simile a quella dell’altopiano del Tibet, con le sue distese di colline gialle e verdi, modellate dal vento. La zona meridionale dell’Alto Mustang è più soggetta alle piogge e i suoi rilievi consistono per lo più in grandi dirupi incavati di colore rosso, formati da conglomerati di minuscole pietre sferiche tenute insieme dal fango. Diverse ore di cammino separano i villaggi, che appaiono quasi come dei miraggi all’orizzonte; durante l’estate, dopo la semina, il loro aspetto è quello di oasi verdi in mezzo al deserto.

Il Mustang

Upper Mustang

L’antico regno himalayano del Mustang è una terra arida e desolata di una bellezza ruvida e incontaminata. È stato a lungo protetto dal turismo di massa, e il suo fascino deriva dalla sua inaccessibilità e dalla sua reputazione di ultimo baluardo della cultura tradizionale tibetana. Per secoli questo regno aveva ammassato nei suoi monasteri la ricchezza derivante dalla sua posizione geografica, vero canale commerciale con il Tibet, creando opere assai pregevoli, come alcuni fra i più bei affreschi del mondo tibetano tuttora visibili.

Nell’accezione comune, il nome Mustang indica l’arida regione posta al confine con il Tibet, all’estremità nord del Kali Gandalà (chiamato Lo dalla popolazione locale). Probabilmente Mustang è il risultato della cattiva pronuncia in nepali del nome della capitale del Lo, Manthang. Ufficialmente il Mustang è la regione che si estende lungo il Kali Gandalà dal confine meridionale del Tibet a Ghasa, lungo il circuito dell’Annapurna. L’area ad accesso limitato di influenza tibetana si trova a nord di Kagbeni, ed è generalmente denominata Alto Mustang.

L’Alto Mustang è formato da due regioni distinte: quella a sud, che comprende cinque villaggi abitati da una popolazione affine ai manangi, e quella a nord (l’antico regno di Lo), dove lingua, cultura e tradizioni sono in genere tipicamente tibetani. Il nome della capitale del Lo, Manthang, in tibetano significa ‘Pianura (thang) dell’Aspirazione (mon)’. Molti testi riportano come capitale Lo Man-thang, il che non è del tutto corretto; in altri, altrettanto erroneamente, il nome del regno è Lho, translitterazione del termine tibetano che significa ‘sud’. Riassumendo, il Lo è la zona dell’alto Mustang a nord di Samar, con capitale Manthang. Sovrano del Lo è il Lo Gyelbu, benché in questo caso sia più giusto ricorrere al termine nepalese raja. Per evitare ogni possibile confusione con le cartine e i testi esistenti, chiameremo ‘Lo’ l’Alto Mustang e la capitale del Lo ‘Lo Manthang’.

Fonte wikipedia e Lonely Planet

Il trekking nel Mustang 28/10/2019 Tscharang – Lo Manthang

Un regno ormai passato

Sono arrivato finalmente!!! Questa è stata l’ultima tappa da Tscharang a Lo Manthang Fatica? Certo non è stata una passeggiata, ma diciamo che c’è stato di peggio. Oggi ho camminato per 14 Km sul “borotalco” tanto la polvere era fine e impalpabile.
Arrivi all’ennesimo passo e la vedi giù, in fondo, l’antica capitale dell’antico Regno di Lo: Lo Manthang. Un villaggio con meno di 2000 abitanti, sperduto nel mare delle montagne, che vive ormai nel passato, un regno ormai inesistente e con un re ormai, purtroppo, deceduto. Tutto ormai parla del passato: almeno il deposto re era un punto di riferimento per la popolazione. Ora è il regno di qualche negozio che vende improbabili cimeli artistici di un tempo di gloria. Non c’è nulla se non anziani in attesa che anche per loro arrivi il “vento”. Donne in continua preghiera sulle soglie di casa, che trovano ancora qualcosa da raccontarsi. Giri per le viuzze dove incontri deiezioni in ogni dove, attraversando le quali senti il muggire degli animali nelle stalle e il chicchirichì dei galli nei pollai, ma dove senti anche il risuonare dei tamburi che accompagnano le preghiere della sera e del mattino.

La precarietà

Qui tutto è precario. Le case, lungo i vicoli della città vecchia, sono appoggiate le une alle altre, tutte bianche con piccole finestre colorate. È tutto piccolo, angusto, buio e sporco. Ci fosse una casa con i muri perpendicolari al terreno o con una finestra con i lati tra di loro paralleli! Tra le case scorre veloce un rigagnolo sul quale le donne s’inginocchiano per lavare i piatti o fare il bucato. Gopal mi racconta che 20-30 anni fa qui la vita era completamente diversa. Oggi, molti dei già pochi abitanti fanno la stagione come i nostri rifugisti, per scendere a Jomsom o a Pokhara durante i rigidi inverni. Molti proprietari dei negozi che oggi sono chiusi sono oltre confine, in Cina, per affari. Ormai il paese è privo di giovani e, quindi, di futuro. Gli unici giovani che incontri sono attorno ad un pick-up con l’intento di aggiustare una ruota.

I colori dei templi

Lo Manthang è stata una delusione? Non direi proprio. Il paese non è poi tanto diverso dagli altri incontrati. È solo la parola “capitale” che t’illude. Di bello c’è il poderoso gompa di color rosso e gli innumerevoli templi sparsi lungo le viuzze del villaggio. Guardando questi luoghi dedicati al culto non puoi non paragonarli ai nostri. Aprendo le porte del tempio è come se aprissi la tavolozza dei colori. Il tempio è sì qualcosa che ti porta al rispetto, ma ti porta anche ad una predisposizione d’animo diversa, più serena e sciolta. I nostri luoghi di culto, tranne le ovvie eccezioni, sono per lo più austeri, grigi, incutono una certa soggezione nella loro grandiosità. Qui sono luoghi, mi dice Gopal, dove la gente si raduna per festeggiare. La Chiesa, nel mio modo di sentire, la vedo come luogo da frequentare per rispondere ad un comandamento, una cosa purtroppo completamente diversa, dove alla gioia si contrappone un obbligo.

Difficile trovare qualcosa di autentico

Purtroppo la trascuratezza è evidente come, mi racconta la guida, la depredazione costante, da parte dei collezionisti, dei beni rimasti nei templi. Corruzione e miseria aprono la strada a questi traffici che impoveriscono sempre di più il patrimonio culturale di queste zone.
È ormai raro trovare nei monasteri qualcosa di veramente autentico. Le uniche cose autentiche rimaste sono forse i dipinti alle pareti, anche loro comunque in uno stato di vero degrado. Il resto sono copie di originali andati a rinfoltire le collezioni di qualche magnate in giro per il mondo. Il mercato nero è molto fiorente, alimentato anche dalla complicità di che dovrebbe controllare.

In conclusione

Lo Manthang è l’ultima tappa del mio trek nel Mustang. Ho camminato per 6 giorni e 74 chilometri vedendo un mondo molto lontano dal mio. Come avete letto, le riflessioni non sono mancate e nemmeno gli spunti per capire genti e situazioni diverse. Il viaggio mi è servito non solo a mettermi alla prova fisicamente ma anche a guardarmi un po’ dentro mentre coprivo le distanze tra i vari villaggi.
Alla fine posso dire che il ricordo del viaggio forse sbiadirà con il tempo, ma certamente farò in maniera di non perdere le idee e gli spunti che questa esperienza mi ha lasciato nel cuore.

Il trekking nel Mustang 27/10/2019 Ghami – Tscharang

Da Ghami a Tscharang

Arrivare con le proprie gambe

Oggi la penultima tappa da Ghami a Tscharang; Gopal sta cercando una soluzione per farmi arrivare alla meta senza troppa fatica ma non si trova. L’ultima jeep era promessa ad una comitiva partita prima di noi. Dai, non perdiamoci d’animo e partiamo, né con il cavallo né con la jeep ma con le nostre gambe. Gopal è davanti, Balman dietro. Il passo di Gopal oggi è più lento, forse ha capito che ci separano più di vent’anni e a 3.500 metri si sentono tutti. Saliamo passo dopo passo e alla fine ci siamo. Sono arrivato all’ennesimo passo di questo bellissimo trek. Ce l’ho fatta senza cavallo e senza vettura e ne sono orgoglioso. Ormai voglio arrivare a Lo Manthang solo esclusivamente con le mie gambe. Se questo itinerario mi deve insegnare qualcosa, è quella di avere più fiducia in me stesso e nelle mie capacità. Gopal alla fine ha creduto più in me di quanto non abbia fatto io. Con calma e pazienza ci siamo riusciti. Ora che sono all’ultima tappa prima del mio arrivo a Lo Manthang, mi sembra tutto più facile e possibile.

Indù o Buddista: non centra

Da Ghami a Tscharang

Qui a Tscharang ho visitato un monastero proprio bello. Sono accompagnato nella visita da un monaco. Certo che capire qualcosa di questa religione è proprio un’impresa. Qui la religione è proprio parte integrante e pregnante della vita di chiunque, sia essa induista o buddista. La cosa genuina è che non ne fanno un mistero, anzi per loro è quasi un vanto. Diversità abissale se rapportato al nostro senso religioso. Noi abbiamo quasi vergogna di parlare del nostro rapporto con la religione e con il nostro Dio. Qui passando davanti ad un tempio s’inchinano, sia esso indù o buddista.

Dubbiosi e fragili

Da noi, anni addietro, si faceva il segno della croce passando davanti ad una chiesa. Ora non più! Vergogna, distacco, menefreghismo, disattenzione, non lo so visto che anch’io sono tra queste persone; e forse per me è una forma di vergogna a mostrarmi in pubblico per quello che sono dentro, come se, così facendo, fossi vittima di una sorta di umana debolezza. In una società egocentrica dove tutto posso fare, dove tutto posso raggiungere e dove la forza del singolo vince, costi quel che costi, mostrarsi dubbiosi e fragili riconoscendo i propri limiti di fronte ad una entità spirituale quale essa sia, non è premiante. Si dirà che questa è una società agricola ormai da noi scomparsa, ma non mi basta questa spiegazione.

È questione d’intuito

Da Ghami a Tscharang

Lungo la strada ormai la fatica svanisce e rimango con i miei pensieri. Ma perché mi ritrovo qui, in Nepal, per la quarta volta? Cosa m’attrae di questo mondo tanto lontano e diverso? Guardo dentro di me e mi vedo sempre puntuale, organizzato, programmatore del mio futuro, con questo bisogno di cercare sempre una definizione chiara e logica, un “punto di gravità permanente”, come dice la canzone di Battiato, “che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”, che mi spieghi tutto in maniera fissa e permanente.
Nel contempo vedo questo mondo e, più che capire, intuisco. Forse sono attratto dalla diversità di questa gente, che con il suo fare così “sciolto”, così libero nella semplicità, così profondamente e dignitosamente fragile, mi sta sussurrando che la vita si può cercare di vivere anche senza tanta paura per il futuro, senza il bisogno di una perenne ricerca di sicurezza e di punti fermi e fissi come cerco di crearmi io.

Il senso del trekking

Sono qui in mezzo al nulla e nel silenzio più totale, circondato dal blu e dal giallo dei monti e ancora più forte sento la fragilità di quello che credo essere le mie sicurezze. Il telefonino, l’assicurazione, il denaro. Certo non potrei farne a meno, ma almeno capire che, in mezzo al nulla del silenzio di queste montagne non servono a nulla è importante. Certo non potrei farne a meno ma, capire che il domani nessuno lo può definire con certezza e che quello che cerchi di costruire, molte volte, è vano, è importante. Forse questa è la cifra ed il senso di questo trek.

Il sole è alto e non soffia il vento

Da Ghami a Tscharang

Le persone che ho incontrato hanno risposto sempre con il loro Namaste al mio Mandi, non mi hanno mai evitato abbassando lo sguardo verso lo straniero che vedevano in me come, invece, molte volte mi capita di fare quando incontro un “diverso” nella mia città. C’è questa semplicità di relazione, questo contatto quasi immediato, questa apertura che mi meraviglia. Non credo sia ingenuità, perché la miseria che circonda questi paesi non permette ingenuità; anzi! La risposta che si dà questa gente è il riconoscere la propria singola debolezza e ricorrere al gruppo del parentado e all’amicizia reciproca diventa forza per superare la difficoltà del momento.
Questa filosofia del bisogno rende tutto più flessibile e possibile. Se questo trek fosse in grado di farmi capire che è impossibile ed illusorio cercare “un punto di gravità permanente” mi avrebbe aiutato a crescere e a capire che si può vivere anche in un altro modo.
Sono a Tscharang! Non me ne sono quasi accorto. Il sole è ancora alto e il vento non soffia in maniera impetuosa e le preghiere appese in ogni luogo si muovono dolcemente mettendo una sorta di allegria.

Da Ghami a Tscharang